Anni '70 – I sequestri di persona a Cesano Boscone - parte seconda
In questa seconda parte ho ricostruito la storia degli altri due sequestri di persona avvenuti a Cesano Boscone, entrambi nel 1978, ai danni di Carlo Lavezzari e Augusto Rancilio.
18 aprile 1978. Sequestro di Carlo Lavezzari.
L’Ingegner Carlo Lavezzari è il classico “self made man” di
razza. Nato nel 1925 a San Pietro Casasco nei pressi di Varzi (Pavia),
lavorando sodo fin da ragazzino è diventato uno dei più noti industriali del
settore siderurgico. Ex partigiano, ha iniziato come lavapiatti in un hotel di
Salice Terme, per mantenersi agli studi al Politecnico di Milano. Dopo la
laurea, lavora come camionista, trasportando rottami per conto terzi. Da qui
l’idea di mettersi in proprio, commerciando prodotti siderurgici e lamiere.[1]
In poco tempo, edifica un impero: è titolare di 16 aziende, con un fatturato di
130 miliardi di lire all’anno.
Produce anche una micro automobile a due posti, la “Varzina”[2]. Nel 1976, le cronache parlano di lui come un probabile acquirente della squadra di calcio dell’Inter, ma l’affare non va in porto.[3] Il momento più drammatico della sua vita è stato quando aveva 20 anni, il 26 febbraio 1945.[4] Quattro partigiani sbandati assaltarono la sua casa per rapinare la famiglia, uccidendo cinque persone, tra cui sua madre, e ferendone altre tre. Carlo si era salvato per puro miracolo. [5]
Corriere della Sera, 20 febbraio 1951 |
Ma nel 1978, Lavezzari sente di poter essere vittima di un sequestro. “Ci provino pure a sequestrarmi, io intanto giro con questa a fianco.” dice Lavezzari in un’intervista, indicando una sacca di cuoio dall’apparenza inoffensiva. “Mica gioco a tennis, io! Qui dentro c’è il mio fedele amico!” E tira fuori dalla sacca un grosso mitra, rimirandolo con occhio compiaciuto. “Provino, provino a rapirmi. Sono pronto ad affrontare chiunque!” Dopo il rapimento Moro, non crede alle scorte ed ai gorilla: prende precauzioni, si sposta in taxi, talvolta anche coi mezzi pubblici.
Alle 7.50 del 18 aprile 1978 Carlo Lavezzari esce dalla sua abitazione di Piazza Napoli 38 a Milano. Davanti al portone lo attende un taxi Peugeot 404, chiamato telefonicamente poco prima. All’autista Giuseppe Giovannini chiede di portarlo al suo stabilimento sulla Nuova Vigevanese, al confine tra Corsico e Cesano Boscone. L’auto si avvia verso la periferia, mentre Lavezzari inizia a leggere i giornali. Arrivato in Viale Italia, a 500 metri dall’azienda, vede scendere da un pullman una delle sue impiegate, la centralinista Fabiana Rita Colombo, di 19 anni. Fa fermare il taxi e le offre un passaggio.
La giovane si siede accanto all’autista. Il taxi percorre l’ultimo tratto del Viale. All’incrocio con Via Canova, il traffico è rallentato da un posto di blocco. Siamo nel pieno del sequestro Moro. “Ormai ci siamo abituati!” dice il tassista, mentre Lavezzari, che sta conversando con l’impiegata, getta uno sguardo distratto.[6]
Corriere d'Informazione, 18 aprile 1978 |
Corriere della Sera, 19 aprile 1978 |
La strada è bloccata da cinque “agenti” della Squadra Mobile,
appostati con i mitra accanto ad una 127 blu e ad una Mercedes grigia. “Alla
vista di un agente che con la paletta mi faceva segno di rallentare –
racconterà il tassista – non ho potuto far altro che fermarmi. Il poliziotto
mi ha chiesto di poter controllare il bagagliaio dell’auto. Nel momento in cui
ho messo piede a terra, un altro poliziotto, rivoltosi al mio cliente, gli ha
chiesto se fosse l’Ingegner Carlo Lavezzari. Ottenuta risposta affermativa, lo
ha invitato a scendere dalla vettura ed a salire sulla 127, perché il Dottor
Pagnozzi della Squadra Mobile aveva urgenza di parlargli”.[7]
Al rapimento assistono da un centinaio di metri anche due
operai dipendenti della Lavezzari. “Ci sembrava un posto di blocco
normalissimo. Gli uomini in divisa sembravano veri poliziotti e prima del taxi
hanno fermato e controllato diverse auto.” Quando l’autista Giovannini e l’impiegata
vedono la 127 e la Mercedes allontanarsi in tutta fretta, si insospettiscono. “Ci
siamo domandati come mai gli agenti disponessero di una Mercedes per un posto
di blocco. Deve essere un auto civetta.” “Ho pensato al rapimento –
racconta Fabiana Colombo - quando ho visto le due auto scattare facendo stridere
le gomme, una in direzione di Trezzano, la Mercedes verso Milano.” Raggiunto
lo stabilimento, telefonano in questura. Subito si mettono in moto decine di
equipaggi di polizia e carabinieri, guidati dall’alto da due elicotteri per
tentare di bloccare i malviventi, ma ogni ricerca è vana. La sacca da
tennis è rimasta lì, con la cerniera chiusa, abbandonata sul sedile posteriore.[8]
La moglie dell’industriale, Angela, di 48 anni, e la figlia
Giuliana di 25 vivono settimane di ansia tremende. Giuliana rivolge un appello
agli ignoti rapitori, perché la salute del padre non venga messa in pericolo. [9]
Corriere d'Informazione, 19 aprile 1978 |
La richiesta dei rapitori per la liberazione del rapito è di tre miliardi di lire, con una prima rata da pagare di un miliardo. Le indagini appaiono subito complesse, ma da due testimonianze precise la polizia crede di riconoscere un certo Alessandro Ruta, incensurato, ma noto perché frequentatore del fior fiore della malavita locale, tra cui Francis Turatello.
Ruta frequenta il Bar Basso di Milano e si sposta su una BMW con targa falsa. Iniziano i pedinamenti. A bordo della BMW vengono notati anche due noti pregiudicati, Guido Tafuri, evaso dal carcere di Ancona, e Michele Chirico. Mercoledì 3 maggio la BMW viene vista ferma accanto ad una cabina telefonica in Piazza Bologna, Tafuri viene fotografato mentre telefona. Alle 18.30 del giorno seguente i due si fermano davanti ad un’altra cabina, in via Sulmona. Gli agenti intervengono in forze li arrestano, proprio mentre stanno parlando al telefono con l’avvocato della famiglia Lavezzari. Iniziano le perquisizioni. Addosso al Tafuri viene trovata la risposta che Carlo Lavezzari doveva fornire alla famiglia per dimostrare che è vivo. Vengono trovate le due auto utilizzate per il rapimento. Iniziano gli interrogatori, ma i due fermati non parlano. Vengono effettuate numerose perquisizioni, senza esito. Si perde un po’ di fiducia. Ma tra il materiale recuperato c’è una busta con scritto un indirizzo, Viale Ranzoni 12, e numerosi mazzi di chiavi.
Alle 22.00 di venerdì 5 maggio 1978 cinquanta uomini muniti di giubbotti anti-proiettili circondano lo stabile. Grazie alle chiavi recuperate si individua l’appartamento a piano terra. Quando gli agenti fanno irruzione, due carcerieri tentano di fuggire da una finestra, ma vengono bloccati.[10] Nel cucinino, seminudo, legato ad una branda, con gli occhi bendati e i tappi nelle orecchie c’è Lavezzari.
Dopo 18 giorni di prigionia è libero.
Corriere della Sera, 6 maggio 1978 |
Corriere d'Informazione, 9 maggio 1978 |
Corriere della Sera, 11 gennaio 1981 |
Carlo Lavezzari il 3 giugno 1979 verrà eletto al Senato
nella VIII legislatura con la Democrazia Cristiana, divenendo amico e
collaboratore di Giulio Andreotti. Sarà membro della Commissione Industria del
Senato fino alla fine della legislatura. Non verrà rieletto alle successive
elezioni, ma diverrà per un breve periodo presidente della società pubblica
Iritecna. È morto il 25 dicembre 1994 all’Ospedale San Carlo per un'emorragia
cerebrale, all'età di settant'anni.[11]
Corriere della Sera, 27 dicembre 1994 |
2 Ottobre 1978. Sequestro di Augusto Rancilio.
Augusto Rancilio (foto Corsera) |
Augusto Rancilio, 26 anni, architetto, è il secondogenito di
Gervasio Rancilio, 85 anni, costruttore edile italo-francese, ritenuto molto
ricco per aver realizzato interi quartieri nel nostro paese e in Francia. Nel 1978, a Cesano Boscone, l’impresa
Rancilio sta costruendo da anni il quartiere Giardino, 31 edifici su un’area di
131.000 metri quadrati, destinati ad ospitare 4000 abitanti.[12]
La notorietà di Gervasio Rancilio è dovuta anche alle vicende giudiziarie che
lo hanno visto protagonista contro il Municipio di Cesano Boscone. Il Sindaco Cavalloni gli ha fatto causa,
perché alcuni palazzi superano i 24 metri d’altezza consentiti; alcune mansarde
sono state abbattute e alcuni pilastri di cemento di una torre in costruzione
sono stati fatti saltare col tritolo. Il Comune lo ha condannato a pagare tre
miliardi di multa, la vertenza è tutt’ora aperta.[13]
Corriere d'Informazione, 2 ottobre 1978 |
Alle 7 del mattino di lunedì 2 ottobre 1978 Augusto Rancilio ed il padre Gervasio, come tutte le mattine, escono dalla loro abitazione milanese di Via Crocefisso 6 per recarsi al cantiere di Cesano Boscone. Si spostano a bordo di una Peugeot 604 blu con targa francese: tutta la famiglia è residente a Parigi. Dopo circa un quarto d’ora i due sono a Cesano Boscone, in via dei Pioppi 4, all’angolo con via dei Salici, di fronte ad un’autorimessa, ove sono soliti lasciare la vettura.[14]
La Peugeot 604 blu dei Rancilio sul luogo del sequestro (foto Corsera) |
L’ingegnere scende dall’auto, il figlio sta chiudendo a
chiave lo sportello. All’improvviso, entra in azione il commando dei banditi. Quattro
malviventi, con il volto coperto da calzamaglie nere, scendono da un furgoncino
Fiat 900T posteggiato nei pressi. Altri due banditi scendono da una Alfa Romeo
Alfetta blu e da una Fiat 131 rossa. Tutti sono armati con mitra o pistole.
Quattro banditi si dirigono verso la Peugeot, mentre gli altri controllano la
strada e ordinano al padre e ad alcuni collaboratori del cantiere di star fermi.
Gervasio Rancilio cerca di reagire, ma un bandito lo blocca. Augusto Rancilio,
un giovane robusto, alto un metro e novanta centimetri, tenta di sfuggire ai
rapitori con tutte le sue forze: scoppia una furibonda colluttazione, ma il giovane
viene immobilizzato e scaraventato sull’Alfetta blu, sulla quale salgono anche
alcuni uomini del commando, che parte a tutta velocità con le portiere ancora
aperte, seguita dalla 131 rossa con a bordo gli altri banditi. “Quando
l’auto si è allontanata – dirà un testimone ai carabinieri – il
sequestrato aveva i piedi fuori da un finestrino.”
Corriere della Sera, 3 ottobre 1978 |
“Stavamo andando in cantiere – racconterà il padre – quando
improvvisamente mi son sentito scaraventare a terra da un individuo mascherato
e armato di pistola, che mi ha detto: Stia fermo altrimenti devo spararle!”
“Aveva l’aria di un bravo ragazzo – aggiunge Rancilio in milanese – tremava
pussee lu de mi. Mentre lo caricavano in auto, mio figlio sembrava un
predicatore, gridava ai banditi: vagabondi, rovinate l’Italia invece di andare
a lavorare!”
Uno dei geometri del cantiere, Giovanni Tucci, estrae una pistola Beretta 7,65 e spara contro i banditi in fuga tutti colpi del caricatore. L’uomo girava armato dall’anno precedente, quando era stato ferito in un agguato colpi di fucile. “[15]
Corriere d'Informazione, 2 ottobre 1978 |
“Lo dicevo spesso all’Ingegnere di non arrivare in
cantiere sempre alla stessa ora – racconta il geometra Tucci ancora
sconvolto – se vogliono rapirla, gli dicevo, lo faranno qui, in cantiere, la
mattina. E così è avvenuto.” Le due auto puntano verso la nuova Vigevanese,
in direzione dello svincolo della tangenziale. Il furgoncino grigio, utilizzato
come nascondiglio dal commando, viene abbandonato sul posto. Gervasio Rancilio
viene riaccompagnato in Via Crocefisso. Qui la madre del rapito, con la sorella
Fiorenza ed il fratello Cesare, aspettano un segnale dei banditi. Papà Rancilio
ha ripreso a lavorare, dettando alcune lettere alla segretaria. “C’è
l’impresa da portare avanti, non possiamo mica fermarci”, ha detto.”[16]
Corriere della Sera, 4 ottobre 1978 |
Due giorni dopo, i quotidiani riportano la notizia che i
Rancilio, temendo da tempo un sequestro di persona, avevano discusso e deciso
di comune accordo di non pagare alcun riscatto. Esiste addirittura un
documento, depositato presso un notaio, in cui viene ribadita questa decisione,
presa serenamente da tutti i familiari. [17]
L’11 ottobre Gervasio Rancilio dichiara che “…l’impresa è nelle mani delle
banche, che possono fare il bello e il cattivo tempo; non ho soldi per pagare
il riscatto, l’unica cosa che posso fare è darmi in ostaggio al posto di mio
figlio, oppure chiedere un prestito bancario, ma non so se mi sarà concesso…
siamo sommersi dagli interessi passivi”. [18]
Corriere d'Informazione, 11 ottobre 1978 |
I giorni trascorrono senza un segnale. Nella speranza di
allacciare un contatto coi rapitori, il 18 ottobre il padre invia ai giornali
un messaggio destinato ai rapitori. “Non ho ancora notizie di mio figlio
Augusto, che certamente ha bisogno di vestiti pesanti. Fate in modo che io
possa farli recapitare. Gervaso Rancilio, via Crocefisso 6, tel. 896.155.”[19]
Purtroppo le settimane trascorrono nel silenzio. A fine
anno, Augusto Rancilio è uno dei 12 rapiti nel 1978 che non hanno ancora fatto
ritorno a casa. In gennaio, a due mesi dal sequestro, Gervasio Rancilio lancia
un appello ai rapitori: “Per il dolore che hanno dato alla mia famiglia li
perdono e li supplico in ginocchio di farsi vivi in qualunque maniera, di darmi
una prova che mio figlio è vivo. Sono pronto a fare quanto vorranno, basta una
foto di mio figlio con il giornale di qualche giorno prima.”[20]
Corriere della Sera, 7 gennaio 1979 |
Una telefonata anonima arrivata ai carabinieri indica che il cadavere di Augusto Rancilio “… è sepolto vicino alla stazione di Bruzzano, tra via Pesaro e la ferrovia, sotto un metro e mezzo di terra.” Immediatamente iniziano le ricerche, la zona viene accuratamente controllata e si scava anche, ma senza trovare alcuna conferma che quel posto fosse stato scelto dall’anonima sequestri. Altri sciacalli telefonano all’anziano costruttore, chiedendo denaro, uno viene anche arrestato. Ma chi tiene veramente in ostaggio Augusto Rancilio non prende contatto per trattare la liberazione dell’ostaggio.[21]
Corriere della sera, 31 marzo 1979 |
A fine marzo Gervasio Rancilio ha perso ogni illusione di
poter riabbracciare il figlio ed offre 40 milioni alla persona che gli
consentirà di recuperarne il cadavere.[22]
Analoghi appelli si susseguono il 7 maggio, il 4 giugno, il 24 luglio, il 25
settembre. “Sono trascorsi ormai 12 mesi dal rapimento di mio figlio e mai
in alcun momento i responsabili hanno fornito una prova qualsiasi che fosse
ancora in vita… rinnovo la dolorosa supplica sia ai rapitori come a chiunque
potrà facilitare il ritrovamento dei resti di mio figlio, onde permettermi di
adempiere al sacrosanto dovere di dargli cristiana sepoltura.”[23]
Vari titoli dei numerosi appelli (Corriere della Sera e Corriere d'Informazione) |
Ulteriori inutili appelli di Gervasio Rancilio si susseguono nel corso del 1980. Finalmente, ai primi di settembre del 1980, una vasta operazione dei carabinieri a seguito di
pedinamenti, intercettazioni e controlli, porta in carcere 23 appartenenti alle
cosche calabresi, accusati di dieci sequestri di persona degli ultimi cinque
anni, tra cui quello di Augusto Rancilio.
Corriere della Sera, 6 settembre 1980 |
Corriere d'Informazione, 6 settembre 1980 |
Vengono individuate anche varie celle dove venivano “smistati” gli ostaggi, quasi sempre in cascinali. Si apprende che uno degli arrestati si è pentito ed ha rivelato che in uno di essi è stato custodito Augusto Rancilio, che sarebbe però morto alcuni giorni dopo il sequestro, durante il trasferimento in Calabria, e lì sepolto.
Nel febbraio del 1981 Viene
ritrovato da un subacqueo in fondo al lago d’Iseo un cadavere ancorato ad un
blocco di cemento; si pensa possa essere quello di Augusto Rancilio, ma la
notizia non viene confermata. Nel marzo del 1982, Gervasio Rancilio offre inutilmente
200 milioni di lire al Comune nel cui territorio verrà recuperato il cadavere del figlio.[24]
Corriere della Sera, 3 maggio 1982 |
Nel 1987, a nove anni dal rapimento, Gervasio Rancilio annuncia la costituzione di una fondazione per ricordare la memoria del figlio, con capitale due miliardi, il cui scopo è offrire ogni anno dodici borse di studio a studenti del Politecnico di Milano in precarie condizioni economiche.[27] Ai primi di agosto del 1989, a 11 anni dal sequestro, la famiglia Rancilio presenta all’ufficio del giudice istruttore di Milano una istanza per la dichiarazione di morte presunta di Augusto.[28] L’8 agosto 1989, all’età di 96 anni, Gervasio Rancilio muore, senza aver visto coronare l’unica aspirazione che lo teneva ancora in vita: quella di pregare sulla tomba del figlio.[29]
Corriere della Sera 21 agosto 1984 |
Il 30 settembre 1990 viene arresta a Buccinasco un altro boss calabrese, originario di Platì: è Saverio Morabito, che in seguito decide di pentirsi e di collaborare. La sua confessione fiume consente di fare piena luce su numerosi fatti di cronaca nera: 9 sequestri di persona, 14 omicidi, ferimenti, traffici di droga e 40 rapine.[30]
Corriere della Sera, 15 ottobre 1993 |
Sul sequestro Rancilio, così
scrivono nel 1997 i magistrati nella sentenza di condanna: “Di tale sequestro, Saverio Morabito ha ammesso
spontaneamente la propria partecipazione, pur essendo stato a suo tempo
prosciolto in istruttoria. Come autori ha indicato Giuseppe Muià, Giuseppe De
Pasquale, Giuseppe Mammoliti, il figlio Saverio ed il fratello Saverio. Gli
incontri per la pianificazione del sequestro avvennero in un bar latteria del Quartiere
Olmi. Furono effettuate ricognizioni in via Crocefisso e a Cesano Boscone. Accertato che il punto vulnerabile di Rancilio era il suo cantiere, fu
deciso di utilizzare un furgone, nel quale si sarebbero nascosti i sequestratori, e si pensò di parcheggiarlo nei pressi del cantiere, con la copertura di altre due auto. (...) A
rapimento eseguito, l’architetto fu trasportato in un box di Cesano Boscone di proprietà di "Mico il Macellaio", ossia Domenicantonio Madaffari. Qualche giorno dopo fu prelevato dal box e rinchiuso nel bagagliaio di una
Renault 5. La destinazione era una
prigione allestita a San Giorgio di Legnano. Durante il tragitto, due complici
che seguivano su un’altra auto segnalarono che il portellone si muoveva.
L’autista si fermò e si accorse che Rancilio stava tentando di aprire la
serratura. Strinse le corde che gli legavano i polsi e ripartì. (...) Dopo
alcuni giorni, Muià fece sapere a Morabito che l'ostaggio era stato trasferito in camion in Calabria, ma che era morto. Messo alle strette,
rivelò che l’architetto era stato ucciso da un suo carceriere, innervosito dai continui tentativi dell'ostaggio di liberarsi e fuggire. Il corpo fu inizialmente abbandonato in prossimità di un canale e successivamente sepolto. L'uomo che aveva ucciso Rancilio, tale “PEPPE LAMPO”, sarebbe stato, a sua volta, vittima di un attentato, deciso dal gruppo Muià per punirlo, ma l'uomo si sarebbe però salvato, non avendo riportato ferite mortali.”
La Fondazione Augusto Rancilio è
un ente culturale senza fini di lucro fondato nel 1983 in memoria
dell'architetto Augusto Rancilio, tragicamente scomparso a soli 26 anni.
Accanto alle sue originarie finalità di studio e ricerca nei campi
dell’Architettura, Design e Urbanistica - con particolare attenzione ai giovani
e al loro inserimento nel mondo del lavoro - FAR promuove oggi la tutela e
valorizzazione della sua sede istituzionale, Villa Arconati-FAR a Bollate,
villa di delizia del '600 immersa nel verde alle porte di Milano.
[2] Corriere d’Informazione, 18 aprile 1978
[3] Corriere d’Informazione, 9 novembre 1976.
[4] Corriere della Sera, 20 gennaio 1951
[5] Corriere della Sera, 9 maggio 1978
[6] Corriere d’Informazione, 18 aprile 1978
[7] Corriere della Sera, 6 maggio 1978
[8] Corriere d’Informazione, 18 aprile 1978
[9] Corriere della Sera, 6 maggio 1978
[10] Corriere della Sera, 7 maggio 1978
[11] Wikipedia
[12] Corriere della Sera, 29 agosto 1969
[13] Corriere della Sera, 3 ottobre 1978
[14] Corriere d’Informazione, 2 ottobre 1978
[15] Corriere della Sera, 3 ottobre 1978
[16] Corriere d’Informazione, 2 ottobre 1978
[17] Corriere della Sera, 4 ottobre 1978
[18] Corriere d’Informazione, 11 ottobre 1978
[19] Corriere della sera, 19 ottobre 1978
[20] Corriere della Sera, 7 gennaio 1979
[21] Corriere della Sera, 9 gennaio 1979
[22] Corriere della Sera, 31 marzo 1979
[23] Corriere della Sera, 25 settembre 1979
[24] Corriere della Sera, 19 marzo 1982
[25] Corriere della Sera, 17 giugno 1982
[26] Corriere della Sera, 23 dicembre 1982
[27] Corriere della Sera, 18 luglio 1987
[28] Corriere della Sera, 6 giugno 1989
[29] Corriere della Sera, 10 agosto 1989
[30] Corriere della Sera, 15 ottobre 1993
[31] Corte d’Assise di Milano, sentenza “Nord Sud”, 11 giugno 1997, pag. 626 e seg.