Un giallo nella Milano degli anni difficili del dopoguerra - Un contadino scopre il cadavere di uno sconosciuto alla Cascina Travaglia, tra Corsico e Cesano Boscone – Le indagini della Polizia al Lorenteggio e al Giambellino – La scoperta del colpevole – Un caso che riempì le pagine di cronaca nera per molti giorni - I luoghi e i protagonisti 70 anni dopo.
La mattina del 24 luglio 1949 c’era un gran silenzio nei campi e nei boschetti che circondavano la Cascina Travaglia, al Dazio Lorenteggio. Era domenica, e dalla polverosa via Lorenteggio si udiva di tanto in tanto lo scampanellare di qualche ciclista più prudente degli altri. Il ciclista passava, destreggiandosi per evitare le troppe buche che s’aprivano nella strada, e anche lo scampanellare cessava.
In quegli anni, la zona del Dazio Lorenteggio si presentava molto diversa da come la vediamo oggi.
Dopo l’incrocio con la via Inganni, la via Lorenteggio diventava un viottolo non asfaltato in mezzo ai campi. All’’incrocio con un'altra strada campestre, che si trasformerà nella via Bisceglie, la via Lorenteggio superava la pista di allenamento per cavalli della scuderia Burasio e proseguiva sino all’altezza dell’attuale Dazio, ove si biforcava in due stradine. Quella di sinistra, che diventerà l’attuale via Molinetto di Lorenteggio, attraverso un passaggio a livello sulla ferrovia Milano Mortara conduceva alla Cascina Robarello, in riva al Naviglio Grande. La stradina di destra costeggiava invece la Cascina Travaglia, ora scomparsa, che sorgeva ove si trova oggi il parco giochi ai piedi dei due grattacieli della Replay. Questo viottolo proseguiva a zig zag, attraversando campi coltivati e boschetti di robinie, per giungere infine a Cesano Boscone.
Una foto aerea ed una cartina dell’anno successivo ci mostrano com’era la zona a quei tempi.
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Foto aerea della zona del Dazio Lorenteggio nel 1950 (dal sito igmi.org)
Si riconoscono: 1. La futura Piazza Frattini; 2. L’incrocio Inganni – Lorenteggio; 3. Il quartiere di case popolari di via Segneri-Via degli Apuli; 4. Piazza Tirana; 5. L’incrocio via Bisceglie – via Lorenteggio; 6. Il futuro Dazio Lorenteggio; 7. La Cascina Robarello; 8. La Cascina Travaglia; 9. La strada campestre per Cesano Boscone; 10. Il boschetto del delitto. |
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La zona del dazio Lorenteggio in una cartina militare del 1950 (dal sito igmi.org) |
Quella domenica mattina del 24 luglio 1949, di buon’ora, un contadino uscì dalla Cascina Travaglia. Si era accorto che certe piante di pomodori non avevano abbastanza forza per star ritte; ma per fortuna, a poca distanza, c’erano le robinie, con i rami delle quali si potevano fare ottimi paletti di sostegno. Il silenzio era rotto solo dal sommesso frusciare delle acque dei canaletti che scorrevano ai margini del boschetto.
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La Cascina Travaglia (foto archivio “noi di Corsico”) |
Il contadino, armato di coltello, si avviò senza esitazione verso un albero più alto degli altri, ai margini della via per Cesano Boscone. Teneva lo sguardo a terra, per evitare di inciampare nei rovi. Fu così che vide il corpo di un uomo, bocconi sul margine sinistro del viottolo, con la testa nascosta da un fascio d’erba. Il contadino stava per passare oltre, senza curarsi di quello sciagurato, che evidentemente non aveva trovato un luogo più tranquillo per farsi un sonnellino. Ma uno strano presentimento gli ordinò di fermarsi. Con delicatezza, per non svegliare il dormiente, il contadino spostò l’erba che copriva la testa dell’uomo. Fu come se qualcuno gli avesse sferrato un colpo a tradimento. L’uomo era morto: l’erba che il contadino aveva sollevato era bagnata di sangue. Di sangue era sporco anche il collo del disgraziato; e sangue era quella chiazza scura che si allargava sulla giacca, all’altezza della scapola destra.
Così fu scoperto uno dei più efferati delitti di quegli anni complicati.
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Corriere della Sera, 25 luglio 1949 |
La Milano del dopoguerra
Sono trascorsi esattamente 6 anni dalla caduta del fascismo e solo 4 anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Milano si sta lentamente risollevando dai lutti e dalle devastazioni dei bombardamenti. Il compito urgente é la ricostruzione dei quartieri e degli edifici distrutti dalla guerra, come anche del tessuto economico e delle infrastrutture. Il concerto diretto da Arturo Toscanini l’11 maggio 1946 sul palco del Teatro alla Scala, gravemente danneggiato dai bombardamenti dell’agosto 1943 e ricostruito in tempo record, è il simbolo delle speranze, dell’attivismo e della concretezza che animano i milanesi.
Le prime elezioni comunali dopo il ventennio fascista, svoltesi il 7 e l’8 aprile 1946, hanno riconfermato la fiducia in Antonio Greppi, con una giunta di ampia ispirazione socialista e riformista. Il compito che l’aspetta è arduo. Ci sono milioni di metri cubi di macerie da sgombrare, 1400 palazzi distrutti e 11.000 danneggiati, 250.000 locali da ricostruire o da riparare, decine di edifici scolastici gravemente danneggiati o rasi al suolo, 13 padiglioni d’ospedale abbattuti, centinaia di migliaia di mq di pavimentazione stradale sconvolti dalle bombe. Senza contare gli edifici pubblici che hanno subito danni gravissimi, tra cui Palazzo Marino, il Castello Sforzesco, Brera, la Galleria Vittorio Emanuele, i Portici meridionali, il Palazzo Sormani, il Museo Poldi Pezzoli, la Triennale, il Palazzo Reale e l’ex Villa Reale, il vecchio Ospedale Maggiore, il Museo di Storia Naturale, l’Acquario, l’Arena, il Teatro Manzoni, il Velodromo Vigorelli. E 50.000 alberi distrutti su 80.000 esistenti nel 1942.
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Una manifestazione del 1 maggio 1946 (archivio Il Giorno) |
I partiti antifascisti, timorosi che il permanere di una tradizione militare potesse lasciare campo a rigurgiti di fascismo, cercavano in tutti i modi di ostacolare il sorgere di associazioni di ex combattenti. Come scrive Silvio Lanaro: «Il risultato è un generale disorientamento di folte schiere di cittadini adulti, ignari o poco informati di ciò che è avvenuto nel paese dopo l'8 settembre, rinchiusi nel loro silenzio e nella loro rabbia, mal disposti verso la classe di governo [...].»
La ricerca di un lavoro da parte dei reduci sfociava talvolta nello svolgere occupazioni diverse nel corso della giornata, o in attività del tutto provvisorie, frutto di espedienti, talvolta accompagnate da piccoli traffici, commerci occasionali di oggetti anche di piccolo valore. Sarà questo il caso dei protagonisti di questo racconto.
Le prime indagini
Quella domenica mattina del luglio 1949, la notizia del rinvenimento di un cadavere nel boschetto alla cascina Travaglia corre rapidamente per tutta la zona, da Piazza Napoli sino a Cesano Boscone. Carabinieri e Polizia, arrivati sul posto, iniziano immediatamente le indagini. L’ucciso è un uomo tra i trenta e i quarant’anni, bruno, con un’incipiente calvizie; porta baffi e lunghe basette. Unico segno caratteristico, una cicatrice sul mento. Veste un paio di pantaloni a quadri ed una giacca d’altro colore. Sotto il vestito porta un costume da bagno. Nelle tasche, una penna a sfera, un pettine e un pacchetto aperto di sigarette “Alfa”, le meno costose che si trovino sul mercato. Nessun documento, nessun indizio qualsiasi che possa portare ad una identificazione. La morte pare provocata da tre colpi di rivoltella, due sparati alla schiena ed uno alla tempia destra, tutti a distanza molto breve, forse a bruciapelo.
Davanti alla salma, sfilano a decine uomini e donne, venuti da Cesano Boscone e via Lorenteggio. Fissano quel viso insanguinato, si concentrano per un minuto, poi scuotono il capo: mai visto prima d’ora. L’ucciso rimane senza nome.
A mezzogiorno le indagini segnano ancora il passo. Alla cascina Travaglia giungono il dirigente della Squadra Mobile, dott. Greco, il Commissario di Porta Genova e il comandante della Stazione Carabinieri di San Cristoforo. Un nuovo e più accurato esame del cadavere permette di fissare l’attenzione su un grosso anello d’oro che la vittima porta all’anulare destro, sul quale è incisa una sigla: A.B. Nel rovesciare la giacca dell’ucciso, appare l’etichetta del sarto che l’ha confezionata: Onofrio Bisceglie, Via degli Apuli 1.
Poco dopo, alla presenza del Sostituto Procuratore della Repubblica, dott. Pizzonia, il sarto Bisceglie, rintracciato dalla Polizia e accompagnato in auto sul luogo del delitto, afferma con sicurezza: “Si, il vestito l’ho confezionato io, e lui è uno che conosco, ma non mi ricordo il nome; so però che abita anche lui alle case popolari del Giambellino, insieme con un fratello. Sta nella mia via, ma al numero 5. Una volta era agente della polizia ausiliaria. Lo vedevo quasi tutti i giorni: portava sempre il cappello e andava in motocicletta”.
Il quartiere Mina
Il quartiere di case popolari del Giambellino, tra le vie Lorenteggio, Odazio, Giambellino e Inganni é stato costruito dal 1938 al 1944 in stile razionalista dall’Istituto Fascista Case Popolari, con criteri di assoluta economicità, dovuti al periodo bellico.
In 2700 appartamenti abitano circa 20.000 persone, una popolazione eterogenea per provenienza ed estrazione sociale. Numeroso è il gruppo dei cosiddetti “rimpatriati” dall’estero, di coloro cioè che, accolto l’invito del Duce, erano tornati in patria lasciando i vari luoghi di residenza: Francia, Marocco, Tunisia. A questi si aggiungono molti meridionali in cerca di miglior sistemazione e molte famiglie, già residenti a Milano, ma trasferite al Giambellino per l’assegnazione di una casa popolare. I nuclei familiari sono veramente numerosi, la dotazione di servizi pubblici è minima, con docce comuni poste nei cortili e pochi negozi. L’integrazione in una periferia priva di servizi essenziali e di mezzi di comunicazione è difficoltosa. Il quartiere, in origine dedicato alla memoria dei martiri fascisti Renzo e Mario Mina, era stato ben presto soprannominato la “Casbah”.
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Il quartiere Mina in costruzione durante la seconda guerra mondiale (dal sito milanoneisecoli) |
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Il quartiere Mina ultimato e la via Giambellino ancora senza il tram (dal sito milanoseicoli) |
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Il quartiere Mina e la via Giambellino nel 1948 (dal sito milanoneisecoli) |
Chi era la vittima?
Grazie al sarto Bisceglie, la polizia riesce finalmente a identificare l’assassinato: è il ventottenne Attilio Bottigiola, nato il 22 settembre 1921 a Boffalora d’Adda. Abitava con il fratello Angelo, che è sposato ed ha una bambina, in un appartamentino di due stanze al primo piano della scala E di via degli Apuli 5.
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Attilio Bottigiola, la vittima (foto archivio Corsera) |
La Polizia setaccia immediatamente il quartiere alla ricerca di notizie, interrogando molte persone, e scopre ben presto che di Attilio Bottigiola, se non fosse stato ucciso, forse non si sarebbe mai parlato. Sconosciuto tra gli sconosciuti, avrebbe continuato a vivere ignorato nel piccolo mondo della periferia milanese.
Era un giovane tranquillo, silenzioso, senza molti amici ed apparentemente senza nemici. Come tanti altri, aveva fatto la guerra, in Jugoslavia. Non aveva avuto noie durante l’occupazione tedesca, non si era messo una divisa partigiana. Dopo la liberazione, disoccupato, si era arruolato nella polizia ausiliaria, ma non aveva attitudine per tale occupazione. Alla prima occasione, si era dimesso ed era andato a lavorare con il fratello Angelo nel laboratorio della ditta Fraccari, in via Voghera 11, specializzandosi nella fusione dell’oro e dell’argento.
In via degli Apuli 5, quasi tutti lo conoscevano di vista, quasi tutti avevano scambiato con lui una parola, quasi tutti, però, non conoscevano nemmeno il suo nome. Genericamente lo chiamavano “quello che porta sempre il cappello”, oppure “quello della moto”. Aveva un viso affilato e pallido, e portava sempre il cappello perché era quasi calvo. Quando andava a tuffarsi nel naviglio, in mutandine rosse a strisce azzurre, gli si potevano contare le ossa del costato. Faceva colazione e cenava fuori casa, cercando di spendere il meno possibile. Da due anni si era iscritto al partito comunista, presso la sezione del PCI “Battaglia” di Via Lorenteggio.
Poco contento di quanto guadagnava presso la ditta Fraccari, Attilio Bottigiola da qualche tempo era stato preso dalla febbre del commercio. Comprava e rivendeva anellini da uomo e da donna e altri ninnoli da poche centinaia di lire. Ordinato e preciso, teneva una specie di brogliaccio dell’attività, su cui annotava entrate e uscite. A ogni fine mese segnava: “Consegnate lire 8.000 a mia cognata Luigia Cucchetti per spese d’affitto, luce e gas”.
La moto, messa insieme da un artigiano con pezzi di varie marche, era stato tutto il suo lusso, ma un mese fa era stato costretto a venderla, per poter continuare il suo commercio di anellini. Dalla vendita aveva ricavato novantamila lire.
La polizia perquisisce l’appartamento e trova sotto una branda, nella stanzetta dove l’uomo trascorreva le notti, una cassetta di legno, in cui custodiva documenti e denaro. Vengono trovate sette lettere di sette donne: ognuna, con parole le diverse, lamentava di essere stata abbandonata. Ma non sono lettere recenti e nemmeno tanto accese da poter essere interpretate come annunci di vendetta sanguinosa.
Il giorno del delitto
Incrociando varie testimonianze, la polizia ricostruisce l’ultima giornata in vita di Bottigiola, sabato 23 luglio 1949.
In quegli anni la mattina del sabato era lavorativa; Bottigiola era uscito dalla ditta Fraccari verso mezzogiorno, era tornato a casa in via degli Apuli ed aveva pranzato col fratello Angelo. Poco dopo, erano arrivati altri due fratelli, Natalino e Riccardo, entrambi abitanti al Vigentino. Angelo e Riccardo erano andati a salutare alcuni amici in un’osteria di Piazza Tirana. Natalino era andato a visitare il padre Galdino il quale, risposatosi dopo la morte della prima moglie, che gli aveva dato undici figli, abitava in Via Giambellino 146A. Per ultima era uscita la cognata, che lavora come inserviente al circolo “Canottieri Olona”.
Attilio Bottigiola era rimasto solo nell’appartamento di via degli Apuli 5 con la nipotina Francesca, di undici anni. Aveva riparato una presa di corrente che non funzionava e si era poi chinato sul brogliaccio del suo commercio, a far conti su conti. Era uscito verso l’ora di cena e, con la bicicletta verniciata di rosso che aveva acquistato dopo la vendita della moto, era andato al bar tabacchi di via degli Apuli 2. Aveva salutato il padrone e si era seduto ad un tavolo già occupato da tre uomini, con cui aveva giocato a carte. Verso le ventuno, si era alzato, aveva scambiato due parole con altri avventori e si era poi allontanato. Nessuno ha saputo dire se fosse solo o in compagnia.
La polizia non ha scoperto nient’altro di utile che possa aiutare a far luce sul delitto. In verità, alle ventidue di sabato, una giovane donna bionda era giunta, al volante di un’auto grigia, davanti alla trattoria “La Pianta” di Cesano Boscone. Aveva guardato nel locale senza scendere dalla macchina, come se cercasse qualcuno. “Non c’è!” aveva detto agitata, ed era ripartita. Poco dopo, in via Giambellino, la donna bionda aveva investito una passante abitante alla “Casbah” e non si era fermata a soccorrerla. Ma questa apparizione della donna bionda, secondo gli inquirenti, non ha alcuna importanza ai fini delle indagini. L’ipotesi più probabile rimane quella della rapina. Il Bottigiola, dopo essere stato ucciso, era stato rapinato della bicicletta, che era quasi nuova, di uno dei due anelli che portava alle dita e forse di parte delle novantamila lire che aveva incassato dalla vendita della moto..
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Corriere della Sera, 27 luglio 1949 |
Il primo proiettile, sparato da brevissima distanza, ha raggiunto il Bottigiola al braccio sinistro, all’altezza del gomito, e ne ha spezzato le ossa. Il secondo si è conficcato nel fianco destro; il terzo ha aperto una ferita sotto la scapola destra, attraversando il polmone dall’alto in basso, segno che il Bottigiola stava già cadendo, ed è uscita dal ventre. Nella sua corsa, la pallottola ha incontrato la resistenza di alcune ossa ed è stata trovata tra la pelle e la camicia. Nessuna di queste tre ferite era però tale da provocare la morte immediata. L’assassino si è accorto che il disgraziato era ancora vivo, lo ha udito lamentarsi. Con fredda determinazione, si è avvicinato, e ha sparato per l’ultima volta con la canna appoggiata alla tempia destra del Bottigiola.
Il responso dei periti conferma che l’uccisore voleva impedire alla vittima di parlare e doveva fare in modo che il cadavere restasse il più a lungo possibile senza nome. Si spiega così l’accanimento dell’assassino nel vuotare le tasche del morto anche delle cose più insignificanti. Se il Bottigiola fosse stato ucciso solo per essere derubato da un malvivente qualsiasi, che nulla aveva a che fare con la vittima, nei pressi del luogo del delitto si sarebbero trovati certamente i documenti.
La svolta nelle indagini
Sono le 18.30 quando nella caserma dei carabinieri di San Cristoforo squilla il telefono e una voce chiede di parlare con il maresciallo comandante. A chiamare è Giuseppe Pagliaghi, abitante in via degli Apuli 8, che gestisce il bar della sezione comunista “Battaglia” in via Lorenteggio.
Pagliaghi riferisce al maresciallo che la sera del delitto, verso le 22.30, ha ricevuto in sezione la visita di un conoscente, tale Vescovini, che lo pregava di custodire una bicicletta seminuova, le cui caratteristiche corrispondono alla descrizione fatta dai giornali di quella della vittima. Il maresciallo si reca in sezione e preleva la bicicletta, che viene mostrata ai parenti del Bottigiola, che subito la riconoscono.
Il Vescovini viene immediatamente rintracciato in via degli Apuli 9, dove abita con i genitori e tre fratelli minori, ed accompagnato in questura. L’appartamento viene perquisito e vengono trovate due fondine, una delle quali appartenente ad una pistola di grosso calibro.
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Corriere della Sera, 26 luglio 1949 |
Sottoposto a stringente interrogatorio, Vescovini afferma di conoscere il Bottigiola, ma di aver acquistato la bicicletta la sera del delitto alla Barona, da uno sconosciuto piuttosto pingue e basso di statura, pagandola seimila lire. L’uomo gli avrebbe raccomandato di truccare la bicicletta, riverniciandola, perché era stata rubata.
Ma chi è questo personaggio inaspettatamente balzato in primo piano nelle indagini? Corrado Vescovini, detto Renzo, ha solo ventidue anni: è un giovane alto, bruno, dallo sguardo freddo. È nato a Nizza; alla fine della guerra, dopo essere stato partigiano, è entrato nel corpo della polizia ferroviaria, da cui è stato poi congedato. Dopo un periodo di disoccupazione, ha trovato lavoro alla fonderia Siry Chamon di via Savona 97. Chiamato alle armi, è stato destinato ad un reparto di stanza ad Orvieto. Congedato, è tornato a Milano ed ha ripreso il lavoro in fonderia. Chi lo conosce, lo dipinge come un tipo irascibile; a suo carico, risulta una denuncia alla polizia per violazione di domicilio, avendo fatto irruzione nella casa della fidanzata, urlando minacce contro di lei e contro i familiari.
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Il sospettato (foto archivio Corsera) |
La fidanzata si chiama Maria Spinelli ed ha ventuno anni. Nel corso dell’interrogatorio in questura, Vescovini afferma che all’ora del delitto si trovava in sua compagnia. La ragazza viene portata in questura, ma le sue dichiarazioni non concordano con quelle del fidanzato: dice di aver avuto quella sera un appuntamento col Vescovini, ma di averlo atteso a lungo, perché lui si era presentato con molto ritardo. Vescovini risponde alle domande del commissario D’Onofrio col tono di chi non si rende conto di essere in una grave situazione. Non da nessuna impressione di essere sul punto di confessare. Trascorre la notte in camera di sicurezza, fumando una sigaretta dopo l’altra, senza pronunciar parola.
Nel frattempo, il dirigente del commissariato Porta Genova dottor Salerno giunge ad una scoperta di grande importanza. La sera del delitto, poco dopo le ventuno, il Vescovini è stato visto in una trattoria di piazza Tirana. Sono con lui il Bottigiola ed altri due giovani, che per il momento vengono indicati come “El Biundin” e “Sandro”. I quattro discutono per una decina di minuti, poi il Vescovini dice al Bottigiola “Va avanti, ti raggiungo presto”. “El Biundin” è Mario Bodini, una guardia notturna. Interrogato dai carabinieri, racconta che “Renzo” e il Bottigiola avevano discusso dell’acquisto di una motocicletta nell’autorimessa di Enrico Giuliani a Cesano Boscone, presso la quale intendevano recarsi.
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Corriere d’Informazione, 27 luglio 1949 |
Messo a confronto l’indomani con Vescovini, Bodini ribadisce il suo racconto, che l’arrestato definisce invece “fantastico”. Ma Bodini rimane irremovibile nell’affermare che i due si allontanarono insieme per andare “a definire l’affare”. Enrico Giuliani conferma che i due nella sua autorimessa di Cesano Boscone non sono mai arrivati. Da qui il sospetto che durante il tragitto il Vescovini abbia ucciso il Bottigiola: il percorso che i due avrebbero dovuto seguire per arrivare a Cesano Boscone passa dalla Cascina Travaglia, il luogo del delitto. Ma Vescovini continua a negare. È certo però che alle 22.30, quando il delitto era già stato commesso, il Vescovini era arrivato in via Lorenteggio con la bicicletta del Bottigiola e l’aveva affidata al barista.
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Corriere d’Informazione, 27 luglio 1949 |
Un’auto con a bordo l’accusato parte immediatamente verso via degli Apuli. Poco dopo, i tre anellini del Bottigiola, il suo orologio ed un suo anello vengono trovati nella soffitta, nel posto indicato da “Renzo”, infilati in una custodia per maschera antigas. Dopo circa mezz’ora, il Vescovini piangendo dice di voler accompagnare il commissario D’Onofrio dove ha nascosto la rivoltella. L’arma, una grossa “Glisenti” di vecchio tipo, viene ritrovata in fondo alla Lorenteggio, in un fosso a lato della strada, dove c’è la targa che indica la città.
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(foto archivio Corsera) |
“Non volevo uccidere Attilio Bottigiola! Se ciò è avvenuto, è stato in un momento di eccitazione, dopo un diverbio avuto con lui a causa della mia fidanzata Maria Spinelli. Devo aver perduto il controllo dei miei nervi!”. Con queste parole Corrado “Renzo” Vescovini ha confessato il delitto. Ecco il suo racconto.
“Una settimana prima del delitto avevo ricevuto dal Bottigiola tre anellini con l’incarico di venderli, ma non c’ero riuscito. Alle 20,.30 di sabato l’ho incontrato, in presenza anche della guardia giurata Bodini, ed abbiamo parlato di motociclette. Il Bottigiola mi ha chiesto di restituirgli gli anelli. Poco dopo, ci siamo diretti verso Cesano Boscone, ero seduto sulla canna della bici del Bottigiola. Avevo la rivoltella infilata dentro la cintura, La porto sempre con me."
Il processo e la condanna
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Corriere della Sera, 7 giugno 1950 |
Corrado “Renzo” Vescovini viene rinviato a giudizio per l’omicidio di Attilio Bottigiola. Il processo inizia nell’aula della terza sezione della corte d’assise il 7 giugno 1950. L’accusa chiede la condanna all’ergastolo. Il processo è molto veloce, data la confessione dell’imputato, e si conclude il giorno seguente.
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Corriere della Sera, 8 Giugno 1950 |
Dopo un’ora di camera di consiglio, la Corte ha escluso la premeditazione e ha riconosciuto al Vescovini un vizio parziale di mente, condannandolo a 22 anni, 3 mesi e 10 giorni di reclusione ed ordinandone anche il ricovero in casa di cura per 3 anni a pena espiata.
La vicenda si conclude e lentamente viene dimenticata. Milano in quegli anni ha ben altro a cui pensare e anche la criminalità ha ben altri obbiettivi. Si veda a tale proposito l’altra mia ricerca sulle
rapine della Banda delle Tute Blu.
Epilogo, settant’anni dopo
Al termine della ricerca che mi ha portato a ricostruire questa vicenda, ho voluto vedere e fotografare i luoghi dove si è svolta. E fare un'ultima scoperta.
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L’area dove sorgeva la Cascina Travaglia, demolita negli anni ‘80. Il boschetto del delitto si trovava dietro i due grattacieli. (foto dell’autore) |
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Il Dazio e la via Lorenteggio; in un fossato sotto il cartello “Milano” la polizia ritrovò la pistola dell’assassino (foto dell'autore) |
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La via degli Apuli, nel quartiere di case popolari del Giambellino. Tutto il quartiere è oggetto di un grosso programma di riqualificazione urbanistica. (foto dell'autore) |
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L’edificio di via degli Apuli 5 dove viveva la vittima. Il giorno in cui ho scattato questa foto - coincidenza incredibile! - c'era una bici rossa... (foto dell'autore) |
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L’edificio di via degli Apuli 9, dove viveva l’assassino (foto dell'autore) |
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I locali a piano terra di via degli Apuli 2, in cui si trovava il bar tabaccheria ove la vittima fu vista per l’ultima volta nelle ore precedenti il delitto (foto dell'autore) |
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L’edificio di via Lorenteggio 179 ove si trovava la sezione PCI “Battaglia”: qui l’assassino portò la bicicletta della vittima (foto dell'autore) |
Ma la scoperta finale, forse la più curiosa, è che, a distanza di oltre settant'anni, la vittima, Attilio Bottigiola, ed il suo assassino, Corrado Vescovini, sono ancora vicini: sono entrambi sepolti al Cimitero Maggiore di Milano, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro. E Vescovini è morto il 23 luglio, lo stesso giorno in cui uccise Bottigiola!
A volte, il destino ha molta più fantasia di noi.
L'autore ringrazia Massimo Biffi per il prezioso aiuto nelle ricerche.
Lanaro, cit.
Corriere della Sera, 25.7.1949
www.murialdomilano.it
Corriere della Sera, 26.7.1949
Corriere della Sera, 25.7.1949
Corriere della Sera, 27.7.1949
Corriere della Sera, 26.7.1949
Corriere della Sera, 27.7.1949
Corriere della Sera, 28 luglio 1949
Corriere della Sera, 29 luglio 1949