1915-18: L’opera delle Patronesse della Assistenza Pubblica Milanese nella Prima Guerra Mondiale
Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Iniziava così per il nostro paese la Prima Guerra Mondiale. Il Comitato Patronesse dell’Assistenza Pubblica Milanese si attivò immediatamente con una serie di iniziative a sostegno dei soldati al fronte: le maschere antiasfissianti, il gioco dell’aquila e i fasciapiedi. Ad oltre un secolo di distanza, ho voluto ricostruire l’attività di queste primissime volontarie.
Il Comitato Patronesse era il ramo di volontariato
femminile della Assistenza Pubblica Milanese, la Società Volontaria di Soccorso
sorta a Milano nel 1899. Ricordiamo che in quei primi anni il servizio di
pronto soccorso poteva essere svolto solo da volontari di sesso maschile; alle
volontarie, definite “Patronesse” erano affidati compiti diversi, quali l’assistenza
domiciliare, la raccolta fondi o le opere benefiche. Da un documento del 1907
apprendiamo che un consiglio direttivo composto da 7 volontarie amministrava e
organizzava l’attività di 429 volontarie, suddivise in 292 “Patronesse” e 137
“Zelatrici”. La sede dell'Assistenza Pubblica Milanese era in via Laura Solera Mantegazza 3, una
traversa di Corso Garibaldi.
Cartolina Pro Assistenza Pubblica Milanese - 1912 (collezione Minissi) |
Statuto Sociale e Elenco delle Patronesse della A.P.M. (collezione Minissi) |
La prima iniziativa intrapresa dalle Patronesse subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia fu la produzione di maschere antiasfissianti e di tasche di stoffa per la loro custodia; la maschera era del tipo Ciamician-Pesci, dal nome dei due chimici che la avevano ideata.
Maschera Ciamician-Pesci (dal sito afp.marconirovereto.it) |
La maschera Ciamician-Pesci indossata da un ufficiale (dal sito www.historicalab.it) |
Alcuni articoli pubblicati dal Corriere della Sera nel 1915 ci descrivono come queste maschere fossero realizzate dalle
Patronesse della Assistenza Pubblica Milanese.
Corriere della Sera, articoli del 22 e 23 giugno 1915 e 7 luglio 1915 |
Leggiamo in particolare sul Corriere del 22 giugno 1915: “La
produzione delle maschere antiasfissianti ha quindi come punto di partenza la
sede dell’Assistenza, la quale provvede a proprie spese all’acquisto del
materiale. Un gruppo di signore e signorine taglia, adatta, prepara modelli del
tipo unico prescritto dall’autorità militare. Sono le signore Bianchi Moretti,
Baglia Bambergi, Carabelli, Carrozzi, Melgunoff, Perego, Cavalli, e le
signorine Moretti, Berardi, Cattaneo. La sede dell’Assistenza è trasformata in
un vero e proprio laboratorio in cui strepitano le macchine da cucire e
lavorano gli aghi e le forbici. Dal di fuori vengono quotidianamente le
volonterose lavoranti a ritirare il materiale predisposto, che sarà poi
restituito in maschere confezionate; così, mentre da una parte si distribuisce,
dall’altra si ritirano i capi già pronti, e l’Assistenza, oltreché centro di
distribuzione, diventa anche centro di raccolta. A suo tempo poi l’Assistenza farà la consegna
alla Sanità Militare di migliaia di maschere, che saranno infine dalla stessa
Sanità completate con l’applicazione dell’ovatta satura di Sali
antiasfissianti. Così l’Assistenza ha aggiunto una nuova benemerenza alle molte
acquistate in questi tempi, esplicando iniziative e dando efficace
contribuzione ai servizi sanitari di guerra”.
Il Corriere della Sera del 1° ottobre 1915 annunciò che era
stato superato il numero di 40.000 maschere anti asfissianti prodotte dalle
Patronesse dell’Assistenza Pubblica Milanese.
Le criticità della maschera erano però la mancanza di copertura di tutto il viso, l’irritazione alla pelle e la durata limitata della protezione. Inoltre, la maschera era efficace solo contro il cloro, a patto di non rimanere esposti alla sostanza per più di un’ora. Rivelatasi tragicamente inefficace al gas fosgene, la maschera fu in seguito ritirata e sostituita da un altro modello.[1]
Le Patronesse dell'Assistenza Pubblica Milanese decisero allora di dedicare la loro attività volontaria ad un'altra iniziativa.
Nell’autunno del 1915 si era ancora convinti che la Grande Guerra avrebbe avuto vita breve. "Tutti a casa per Natale" era lo slogan più in voga. Ma dopo le prime battaglie, chilometri di trincee impedivano di avanzare e migliaia di uomini morivano da entrambe le parti. Mentre gli elenchi delle perdite si allungavano sempre più, l'equipaggiamento dei soldati si rivelava insufficiente. I "nostri ragazzi" al fronte avevano bisogno proprio di tutto e ci si mobilitava per raccogliere generi alimentari, calze di lana, guanti e tabacco.
In cambio si regalavano distintivi, bandierine, piccole cose
fatte a mano e, perché no, tavole di giochi dell'Oca come quello creato e
pubblicato sul finire del 1915 dal Comitato Patronesse dell'Assistenza
Pubblica Milanese con il nome di Gioco dell’Aquila.
Nella prima guerra mondiale gli animali rivestivano una duplice importanza e venivano "usati" con valenze assolutamente diverse. Accanto a cavalli e cani impiegati quotidianamente al fronte, anche i canarini servivano per scoprire la presenza di gas e i piccioni per recapitare messaggi. I disegnatori invece ne sfruttarono l'aspetto simbolico: ogni animale rappresentava una nazione. Il vecchio e regale leone inglese, il gallo con berretto frigio della rivoluzione di Francia, l'orso russo forte e indomito. Sul tabellone del Gioco dell’Aquila, in basso a sinistra, è riprodotta l’aquila asburgica nera "bestia grifagna, stolida, che squarta, sgozza, scuoia, che ha la forca per gruccia, ed ha per cuoco il boia" che si rivolge gridando con evidente ostilità contro un’altrettanta incattivita oca bianca con due teste, presumibilmente italiana. In alto un cartiglio posto a fianco di un soldato con divisa italiana recita in rima: “i soldi che nel giuoco hai guadagnati versali per la lana dei soldati”.
Il percorso a spirale concentrica è contornato di alloro e fasce tricolore, soldati con medaglie al valore mostrano la loro audacia. Al centro il regolamento in forma poetica così recita:
"Se un’aquila tu incontri, procedi avanti ratto/Contando
un’altra volta il nu-mero già fatto:/ se al primo colpo il 6 col 3 ti esce di
mano/ vai al 26 col volo d’un agile biplano;/ se invece il 4 il 5 dà il primo
getto a te/ non perder tempo inutile e va al 53./ Se al piè del monte, al 4, il
tuo destin ti mette/ Al 37 sali ed oscurane le vette;/ se al 7 il bersagliere
vedrai che va all’assalto/ fa come lui, ti slancia all’11 d’un salto./ Se al 30
sei portato a prendere respiro/Senza toccare i dadi devi restare un giro./ Se
tu alla cassa, al ponte, all’oste-ria sei spinto,/ paga la posta, e pagala al
pozzo e al labirinto:/ se alla prigione giungi, vi resta e sta nascosto/ finché
non giunga un altro a prendere il tuo posto./ Se arrivi al 58 meschin trovi la
morte,/ escluso sei dal giuoco, né puoi tentar la sorte,/ se il 63 superi senza
fermarvi i piedi/ finché non compi il numero che hai fatto, retrocedi,/ se nel
63 con precisione caschi/ hai vinto la partita e tutti i soldi intaschi.”
L’aquila nelle diverse caselle è protagonista di imprevisti, viene ritratta con le stampelle, moribonda, fucilata, mezza spennata, infilzata dalla baionetta, arrostita, completamente nuda e pronta per lo spiedo, tragicamente morente, cotta e servita su un vassoio. Troviamo svariate caricature denigratorie di generali nemici e dello stesso imperatore Francesco Giuseppe alla casella 56. Nella casella 1 si vedono le montagne di sfondo e uno scarpone che abbatte con sicurezza il cartello del confine, alla 2 i soldati partono salutati dai loro figli e subito si arrampicano, come alpini, sulle rocce o corrono, come bersaglieri, all’assalto. Il resto delle caselle vede riprodotti i soggetti tipici dell’epica guerresca: ministri italiani, gas asfissianti, fabbriche bombardate da velivoli ad elica, sommergibili con bombe, crocerossine volontarie, madri in preghiera e cappellani militari[2].
Tutto è raccontato con semplicità. L'eroismo è premiato, la viltà punita, il nemico sconfitto e nella finzione ludica ogni cosa è più facile, c'è in fondo un invito a sperare, a lottare: "Moltiplica l’Ardor che ti trasporta, Ancor un colpo e sfonderai la porta. La vittoria, che qui è soltanto un gioco, il tricolore bacerà tra poco."
Anche il Corriere della Sera nel dicembre del 1915 parlò del
successo Gioco dell'Aquila "...curioso e indovinato",
attraverso due articoli.
Corriere della Sera, 18 dicembre 1915 |
Corriere della Sera, 23 dicembre 1915 |
Il gioco ebbe subito grande successo; veniva consegnato a
fronte di una offerta minima di Una Lira (circa 4 Euro attuali).
La terza iniziativa intrapresa dalle Patronesse della Assistenza
Pubblica Milanese nell’autunno/inverno 1915/16 fu quella di produrre i fasciapiedi, utili
per contrastare l’insorgenza nei soldati schierati nelle trincee di prima linea
di una patologia chiamata piede da trincea.
Le trincee erano spesso invase dall’acqua piovana e dal
fango, che potevano raggiungere, specie durante i periodi di maggiore
piovosità, l’altezza delle caviglie e, a volte, anche delle ginocchia. Ma anche
quando la trincea era in condizioni ideali, con il suolo asciutto e protetto,
avveniva spesso che i soldati, per raggiungere la prima linea o i ricoveri,
dovessero marciare sotto la pioggia e percorrere camminamenti acquitrinosi o
fangosi, bagnandosi in questo modo gli scarponi ed i piedi.
Trincea scoperta allagata |
Altri fattori tuttavia si aggiungevano al freddo ed
all’umidità nella genesi del piede da trincea ed in particolare tutte quelle
cause capaci di determinare un rallentamento del circolo sanguigno di ritorno
della gamba, come l’uso di particolari capi di vestiario (le fasce gambiere o
mollettiere) e l’immobilità prolungata nelle trincee. Le fasce gambiere
facevano parte dell’uniforme e, se erano avvolte troppo strettamente attorno
alla gamba, potevano ostacolarne il ritorno venoso, non solo durante la marcia, ma anche durante la permanenza in trincea.
Fasce gambiere o mollettiere |
Tale effetto era inoltre aggravato dal fatto che le fasce,
bagnandosi ed asciugandosi ripetutamente, si restringevano anche notevolmente.
Infine, le esigenze tattiche della guerra di trincea obbligavano frequentemente
i militari schierati in prima linea a rimanere immobili per ore in posizioni
scomode (in piedi, in ginocchio, o sdraiati) ed in contatto prolungato con
acqua, neve o fango.
Vedetta sull’altipiano di Asiago |
Ancora, la scarsità di latrine e la difficoltà di
utilizzarle propriamente a causa delle esigenze tattiche e della frequente
presenza di acqua e fango, come anche il sovraffollamento dei soldati nei
ricoveri e la scarsa pulizia personale, favorivano la contaminazione ambientale
da parte di microrganismi patogeni responsabili di patologie infettive a
trasmissione fecale-orale, quali la dissenteria, la febbre tifoide e il colera,
e la diffusione di pidocchi. Le scarse condizioni di igiene ambientale e la
presenza di resti di cibo costituivano infine un irresistibile richiamo per i
roditori, che notoriamente infestavano le trincee ed erano responsabili di
frequenti episodi epidemici di leptospirosi.
Il piede da trincea si presentava con dolori molto forti ai
polpacci, che non venivano messi in relazione con la successiva comparsa di
edemi, rossore, lividore, vesciche ai piedi.
Esempi di piede da trincea (Ungley CC. The immersion foot syndrome. Wilderness Environ
Med, 2003) |
Nella fase avanzata, in mancanza di provvedimenti, si aveva
la necrosi della cute delle falangi delle dita del piede, subentrava la febbre
e si sviluppava la gangrena gassosa che generalmente, unita al tetano, portava
alla morte. L’amputazione del piede o dell’arto era frequente. Il processo di
riparazione delle lesioni era molto lento e la parte rimaneva sensibilizzata
alla patologia. Ciò rendeva i soldati inutilizzabili nuovamente per il
combattimento in prima linea.
Per prevenire l’insorgere della malattia era quindi
fondamentale riuscire a mantenere il piede il più asciutto possibile; da qui
nacque l’iniziativa delle Patronesse della Assistenza Pubblica Milanese di produrre dei
fasciapiedi, ad imitazione delle Chaussettes SW francesi.
Pubblicità delle Chaussettes SW francesi |
Erano dei quadrati di tela, imbevuti di grassi sterilizzati
e disinfettati, su cui il soldato posava il piede. Sopra di essi il soldato indossava
un calzerotto di cotone o una calza di lana. I fasciapiedi erano chiusi in
piccole buste impermeabili; il soldato poteva tenerne parecchi in tasca,
occupando pochissimo posto.[3]
Bersagliere mentre indossa i fasciapiedi (dal sito www.canosaweb.it) |
L’iniziativa fu approvata dalla Sanità Militare e dal Comando del Corpo d’Armata giunsero parole lusinghiere: “Esperimentati da soldati che devono compiere marce e da altri che trascorrono la giornata fermi in trincea, in entrambi i casi i fasciapiedi A.P.M. sono risultati ottimi, perché mantengono caldo il piede e lo preservano dall’umidità: inoltre la sostanza della quale sono imbevuti ammorbidisce la pelle e impedisce il bruciore prodotto dall’uso prolungato delle calze di lana. Dopo alcuni giorni però la sostanza di cui sono imbevuti viene assorbita ed occorrerebbe quindi avere una grandissima quantità di fasciapiedi per poterli cambiare”.[4]
Volontarie al lavoro di cucito (dal sito www.14-18.it) |
La produzione di fasciapiedi da parte delle Patronesse della
Assistenza Pubblica Milanese procedeva instancabile: nell’annunciare che ai primi di novembre erano
già state cuciti e spediti al fronte 15.000 pezzi, il Corriere scriveva
che “All’Assistenza fanno capo signore e persone volonterosissime: non è la
mano d’opera che manchi, ma essa rimarrebbe inerte se non fosse alimentata
continuamente, ininterrottamente dalla materia prima, tela e sego specialmente.
Non mancano i privati e le ditte che hanno fatto generose offerte… Quale
famiglia agiata non ha in casa delle vecchie disusate confezioni di tela –
preferibilmente lenzuola – da poter cedere?”
Il 12 dicembre del 1915 il Corriere annunciava ai suoi lettori che le Patronesse dell’Assistenza Pubblica Milanese avevano raggiunto il numero di 30.000 fasciapiedi cuciti e spediti al fronte; il 2 febbraio 1916 fu raggiunta la sbalorditiva quantità di 60.000 pezzi prodotti e spediti.
“Non sarà vano – scriveva il Corriere – fare ancora
una volta appello alle buone persone affinché venga raccolta la maggior
quantità possibile di tela nuova od usata, di filo o di cotone, (lenzuola,
federe vecchie, ecc.). Dietro avviso, l’Assistenza manderà per il ritiro,
valendosi dei suoi militi e di giovani esploratori.”[5]
L’attività delle Patronesse dell’Assistenza Pubblica Milanese
proseguì per tutta la durata del conflitto, portando sollievo e beneficio a
migliaia di soldati.
I fasciapiedi vennero nuovamente prodotti da volontarie
milanesi nel 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando l’esercito
italiano fu mandato a combattere in Russia, nel gelo dell'inverno. In quegli anni la Assistenza Pubblica Milanese,
come anche la Croce Verde, non esistevano più, in quanto sciolte dal governo
fascista. Ma il Cav. Attilio Giara, un ex consigliere dell'Assistenza Pubblica Milanese, memore di
quanto realizzato durante la Prima guerra Mondiale, riorganizzò la produzione
con le medesime modalità, al ritmo di 2000 pezzi al giorno, che venivano inviati ai soldati al fronte[6].
Corriere della Sera, 2 aprile 1942 |
Solo dopo il 1945, con la ricostituzione della Croce Verde
Assistenza Pubblica Milanese, le volontarie ebbero finalmente la possibilità di
svolgere servizio di pronto soccorso.
Dopo oltre 100 anni, il ricordo della silenziosa opera volontaria delle Patronesse a sostegno
dei soldati al fronte durante la Prima Guerra Mondiale rischiava di essere dimenticato. Per questo ho voluto ricostruirlo e riportarlo alla conoscenza di tutti.
[1] http://afp.marconirovereto.it
[2] http://www.giochidelloca.it
[3] Corriere della Sera, 1° ottobre 1915
[4] Corriere della Sera, 11 novembre 1915
[5] Corriere della Sera, 2 febbraio 1916
[6] Corriere della Sera, 2 aprile 1942