Il fratricidio di Bilegno
Bilegno è una piccola località nel cuore della Pianura Padana. Frazione di Borgonovo Val Tidone, in provincia di Piacenza, da cui dista poco più di 3 chilometri, Bilegno è terra di bonifica, fra distese di campi seminati che si perdono a vista d’occhio e che nelle giornate di sole brillano di un verde abbagliante. È un piccolo grumo di case e cascine raccolte intorno alla Pieve di San Giorgio, dove oggi vivono meno di cento abitanti e dove il tempo sembra essersi fermato alla fine dell’Ottocento, quando qui si consumò una tragedia familiare che coinvolse alcuni antenati della mia nonna materna.
| Bilegno, Borgonovo e Seminò (da Google) |
Si iniziava ogni annata con la preparazione del terreno e la
semina, usando aratri tirati da buoi. Seguiva poi il taglio e la raccolta del
fieno, un periodo di lavoro intenso. Si passava poi alla trebbiatura, per
separare i chicchi dalla pula. I cereali come il grano venivano utilizzati per
produrre farina e mangimi. Il fieno veniva tagliato e essiccato per nutrire il
bestiame durante l'inverno. Dalla vite si ricavava il vino. Si coltivava anche
l’orto per produrre pomodori, carote, fagioli, piselli, patate. Si allevavano
mucche per latte e formaggio, maiali per carne e salumi, galline per uova e
pecore per la lana.
Gli uomini erano principalmente occupati nei campi e nei
lavori pesanti, mentre le donne erano impiegate nella cura della casa, nella
filatura, nella mungitura e nelle colture dell'orto.
La tragedia
La mattina del 10 aprile 1881, domenica, mentre si
accingevano ad uscire con le famiglie per recarsi a Messa alla Pieve di San
Giorgio, tra i quattro fratelli Lucchini nacque una discussione.
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| La pieve di San Giorgio a Bilegno in una antica cartolina |
Il più giovane dei quattro, Stefano, chiese ai fratelli le lire necessarie per andare a Borgonovo a comprare un cappello nuovo. La risposta dei fratelli maggiori fu brusca e negativa, non tanto per il modesto ammontare della cifra, ma forse perché semplicemente il momento era il meno adatto o il tono della richiesta era stato sgarbato.
Stefano, che probabilmente
già soffriva per il suo ruolo subalterno rispetto ai fratelli maggiori, si
adirò moltissimo. Uscì di casa imprecando e bestemmiando, ed invece di andare a
messa con i fratelli e gli altri parenti prese un cavallo e se ne andò a sbollire la
rabbia a casa di una sorella, Elisa, che dopo essersi sposata era rimasta a
vivere a Ziano Piacentino.
I tre fratelli maggiori attesero “Il Magrein” per tutto il
giorno, biasimando a più riprese il suo comportamento. Quando la sera lo videro
finalmente tornare, gli andarono incontro nel cortile e gli furono subito
intorno per dirgliene quattro. Stefano, che a casa della sorella aveva ben
mangiato e soprattutto ben bevuto, reagì malamente e la discussione purtroppo degenerò.

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| Corriere della Sera, 13 aprile 1881 |
Lucchini Stefano fu fermato la mattina successiva al delitto,
11 aprile 1881, dai Regi Carabinieri di Borgonovo, giunti sul posto, ove lo
trovarono addormentato in un fienile accanto alla sua abitazione.
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| Regio Carabiniere nel 1875 (da Wikipedia) |
“Il Magrein” venne portato in caserma a Borgonovo, dove erano
giunti da Piacenza il Giudice Istruttore, il Sostituto Procuratore del Re e il
Vice Cancelliere del Tribunale. Dopo l’interrogatorio, fu convalidato l’arresto
e l’assassino fu tradotto alle antiche carceri di Piacenza in Palazzo Madama,
adiacenti al Tribunale.
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| Esterno dell'antico carcere di Piacenza |
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| Le celle dell'antico carcere di Piacenza |
I magistrati si recarono poi a Bilegno ove interrogarono i
fratelli, i familiari e le altre persone presenti al fatto.
Fu disposta l’autopsia del cadavere di Lucchini Giuseppe,
che venne effettuata a Borgonovo il giorno seguente, 12 aprile; lo stesso
giorno il Giudice Istruttore ne autorizzò il seppellimento.
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| Permesso di seppellimento di Lucchini Giuseppe (da www.antenati.net) |
Il processo a Stefano Lucchini
In quegli anni di fine ‘800 la Giustizia era molto più rapida ed efficiente che al giorno d’oggi. A distanza di soli tre mesi dal delitto venne istruito il processo, che si tenne il 26 e 27 luglio 1881 davanti alla Corte d’Assise di Piacenza, riunita nel Palazzo Landi in Vicolo del Consiglio, antica sede dei tribunali.
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| Palazzo Landi sede dei tribunali |
Una fortunata ricerca presso l’Archivio di Stato Di Piacenza mi ha consentito di ritrovare dopo 144 anni i verbali d’udienza e la copia della sentenza del processo a Stefano Lucchini.
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| Archivio di Stato di Piacenza |
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| Avvocato Giuseppe Calda (da www.caldalegal.it) |
Per prima cosa, il Presidente procedette all’estrazione dei 14
giudici popolari da una lista di 30 cittadini; durante l’estrazione, altri 12
giurati vennero ricusati, di cui 4 dal Pubblico Ministero e 8 dall’Avvocato Difensore.
Ecco i nomi dei 14 giurati estratti ed accettati dalle
parti:
- Charvoz Maurizio, impiegato di Piacenza
- Ghelfi Lodovico, contribuente di Piacenza
- Moglia Giovanni, ex Consigliere Comunale di Cadeo (PC)
- Antozzi Giuseppe, negoziante di Piacenza
- Zangrandi Achille, contribuente di Monticelli (PC)
- Bionda Fiorenzo, contribuente di Fiorenzuola (Pc)
- Vescovo Vittorio, contribuente di Alseno (PC)
- Cordani Pietro, Consigliere Comunale di Groppovisdomo (PC)
- Baderna Alberto, contribuente di Piacenza
- Bassi Colombano, contribuente di Piacenza
- Cigala-Fulcosi Conte Giuseppe, contribuente di Agazzano (PC)
- Gioia Carlo, contribuente di Piacenza
- Raffi Emilio, contribuente di Castel San Giovanni (PC)
- Maldotti Tommaso, contribuente di Vernasca (PC)
Il primo giurato estratto, Charvoz, fu nominato capo della
giuria; gli ultimi due, Raffi e Maldotti, giudici supplenti.
I 14 giurati furono fatti accomodare nei banchi loro destinati di fronte al banco dell’accusato. L’usciere Luigi Giorgi per ordine del Presidente dichiarò aperta la seduta.
Dopo aver chiesto all’imputato di dichiarare le proprie
generalità, il presidente lesse ai giurati la formula di giuramento prevista
dal Codice di Procedura Penale; ciascuno di essi, toccando con la mano destra
la formula, rispose “Giuro”. Il Cancelliere lesse all’imputato l’atto di
accusa.
1.
Assassinio. Per avere, la sera del 10
aprile 1881 verso le ore sette e mezzo in Bilegno e nella comune casa di
abitazione, col preconcetto disegno di attentare alla vita del proprio fratello
germano Giuseppe Lucchini e con l’attuale intenzione di ucciderlo, vibrato al
medesimo un colpo di coltello sul lato destro del torace in corrispondenza alla
cartilagine della quarta costa, che ferendo nello stesso tempo il polmone, il
pericardio, il cuore ed il bulbo dell’aorta lo rese all’istante cadavere;
2.
Ferimento premeditato. Per avere, con
disegno formato prima dell’azione, nelle circostanze di tempo e di luogo
suindicate, menato dei colpi di coltello agli altri due suoi fratelli germani
Giovanni ed Ernesto ed alla nipote Maria Lucchini cagionando (a) al primo una
ferita alla faccia in prossimità dell’occhio sinistro guarita in giorni
trentacinque, lasciando però deturpamento permanente nell’offeso; (b) al
secondo, una ferita al braccio destro che gli produsse malattia ed incapacità
al lavoro per giorni trentadue; (c) ed
alla Lucchini Maria una ferita al dito mignolo della mano destra guarita nello
spazio di dieci giorni.
Dopo la lettura dell’atto di accusa, il Presidente ne spiegò
il contenuto all’accusato, dicendogli: “Ecco di che voi siete accusato, ora
sentirete le prove che si hanno contro di voi”.
Il Cancelliere lesse ad alta voce le liste dei 18 testimoni
da esaminare e il Presidente ammonì tutti i testimoni sull’importanza morale
del giuramento, sul vincolo religioso che per esso i credenti contraggono verso
Dio e sulle pene stabilite contro i colpevoli di falsa testimonianza e di
reticenza. Li fece poi accomodare nelle stanze a loro riservate perché non
potessero vedere o udire ciò che avveniva in aula.
Il Presidente spiegò poi ai giurati la facoltà loro concessa
dalla legge di poter domandare ai testimoni e all’accusato, dopo aver da lui
ottenuto facoltà di parola, tutti i chiarimenti necessari alla scoperta del
vero e passò poi ad interrogare l’accusato, dal quale ottenne categoriche
risposte.
Fu poi presentato all’accusato, al Pubblico Ministero, alla difesa ed ai giurati il coltello sequestrato al Lucchini.
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| Antico coltello della fine dell'800 |
Il presidente chiese infine al Cancelliere di leggere tutte le perizie medico-legali sulle tre vittime e la perizia sulle scalfitture e abrasioni riportate dall’imputato.
Dopo tale lettura il Presidente procedette all’esame dei
testimoni. Furono ascoltati per primi, nell’ordine, Lucchini Giovanni, Lucchini
Ernesto, Lucchini Maria, Parmigiani Maria moglie di Ernesto, Politi Teresa moglie
di Giovanni, Bisi Clementina moglie dell’ucciso Giuseppe, Lucchini Pietro figlio
di Giovanni e Ruggeri Carlo agricoltore di Ziano, probabilmente marito della sorella Elisa Lucchini. Ad ognuno di essi il
Presidente spiegò il diritto loro accordato dalla legge, visto il grado di
parentela con l’accusato, di astenersi dal deporre; tutti risposero di non
voler deporre e per questo vennero congedati.
Il presidente passò poi all’esame di 6 testimoni citati dall’accusa:
- Ghizzoni Giuseppe di anni 38, fabbro ferraio residente in Bilegno;
- Pastorelli Luigi di anni 22, residente in Bilegno, bifolco alle dipendenze della famiglia Lucchini;
- Rossi Stefano di anni 40, proprietario residente in Bilegno;
- Sarchi Agostino di anni 18, famiglio residente alla Calcinara di Bilegno;
- Maffi Giuseppe di anni 15, famiglio alle dipendenze della famiglia Lucchini, residente a Bilegno;
- Cattani Camillo di anni 32, barbiere residente a Bilegno.
Con il termine famiglio si indicava in quegli anni una
persona addetta alla cura, al governo e alla mungitura delle mucche, o in
genere a lavori dell’azienda agricola, che conviveva con la famiglia del fittavolo.
Furono poi ascoltati 4 testimoni citati dalla difesa:
- Massari Paolo di anni 55, agricoltore residente a Agazzano;
- Faccioli Aurelio di anni 42, stalliere a Borgonovo;
- Battini Monica di anni 25, agricoltrice residente a Bilegno;
- Rossi Francesco di anni 36, agricoltore a Borgonovo.
Ognuno dei 10 testimoni prima di deporre prestò giuramento
pronunciando la frase “Giuro di dire tutta la verità, null’altro che la
verità”.
Terminato l’esame dei testimoni, il Presidente fece leggere
dal Cancelliere la perizia sull’arma feritrice e i certificati penale e di
moralità dell’accusato. Dopodiché, “per conveniente riposo”, il Presidente
rinviò la continuazione della causa alle ore nove antimeridiane del giorno
seguente.
L’indomani mattina, 27 luglio 1881, il dibattimento riprese con
l’appello dei giurati e dei testimoni, terminato il quale il Presidente diede
la parola al Pubblico Ministero, che chiese ai giurati per Lucchini Stefano, escludendo
qualsiasi provocazione, una sentenza di condanna a 15 anni di lavori forzati, oltre
all’interdizione dai pubblici uffici, ai danni e alle spese.
L’Avvocato Calda, difensore dell’imputato, pronunciò la sua
arringa, chiedendo invece un verdetto affermativo sulla questione del ferimento
susseguito da morte, ma commesso “nell’impeto dell’ira in seguito di
provocazione e coll’ammissione di circostanze attenuanti”; chiese quindi la
riduzione della pena prevista dalla legge.
I dodici giurati titolari e la corte si ritirarono in camera
di consiglio per deliberare; i due giudici supplenti rimasero a disposizione
nell’aula dell’udienza “senza poter comunicare con chicchessia”.
La sentenza
Dopo congruo periodo di tempo, i giurati e la corte rientrarono in aula. Il Presidente chiese al capo dei giurati quale fosse il risultato delle loro deliberazioni. Il capo dei giurati, alzatosi in piedi e tenendo la mano destra sul cuore, rispose: “Sul mio onore e sulla mia coscienza la dichiarazione dei giurati è questa: “e ne diede lettura.
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| Frontespizio della sentenza (Archivio di Stato di Piacenza) |
Il presidente fece quindi rientrare in aula l’accusato Lucchini Stefano e chiese al Cancelliere di leggere la dichiarazione dei giurati:
verdetto di non colpevolezza in ordine al ferimento della Maria Lucchini, per il quale Lucchini Stefano venne assolto;
verdetto di colpevolezza col concorso di circostanze attenuanti per l’uccisione di Lucchini Giuseppe (omicidio volontario) ed il ferimento di Lucchini Giovanni e Lucchini Ernesto (ferimento volontario).
Per le ammesse circostanze attenuanti la pena ordinaria venne
ridotta come previsto dalla legge. Lucchini Stefano venne quindi condannato
alla pena di anni 12 di lavori forzati, all’interdizione dai pubblici uffici, all’indennità
verso le parti lese e alle spese del giudizio.
Non sono ancora riuscito a scoprire in quale stabilimento penale fu
inviato “Il Magrein” e cosa fu di lui quando all’età di 42 anni, scontata la pena,
tornò libero. Le ricerche continuano.
A Bilegno, nel podere Lucchini, la vita riprese a scorrere
con i consueti ritmi. Della tragedia avvenuta non si parlò più, tanto che nelle
generazioni successive se ne perse completamente la memoria. È per questo che a
distanza di 144 anni da quei tragici fatti, ho voluto ricostruire l’intera
vicenda.
Ringraziamenti
Ringrazio i funzionari dell’Archivio di Stato di Piacenza
per il fondamentale contributo nella ricerca dei documenti relativi al
processo.
Ringrazio Matteo Calegari di Castel San Giovanni per il
prezioso aiuto nelle ricerche.
Ringrazio Giacomo Nicelli del quotidiano piacentino "La Libertà" per i consigli nella ricerca delle fonti di stampa
Fonti
Archivio di Stato di Piacenza, Fondo Corte d’Assise,
Sentenze e Verbali d’Udienza, Volume 19, Anni 1880-1881
Biblioteca Passerini Landi di Piacenza, Periodici Ottocenteschi:
“La Verità”, 12 aprile 1881 e 28 Luglio 1881
“L’Ordine – Gazzetta di Piacenza”, 11 aprile 1881 e 12 aprile 1881
Archivio Storico del Corriere della Sera, 13 aprile 1881
Ministero dei Beni Culturali, Portale Antenati, Ziano
Piacentino e Borgonovo Val Tidone














