Il fratricidio di Bilegno

Bilegno è una piccola località nel cuore della Pianura Padana.  Frazione di Borgonovo Val Tidone, in provincia di Piacenza, da cui dista poco più di 3 chilometri, Bilegno è terra di bonifica, fra distese di campi seminati che si perdono a vista d’occhio e che nelle giornate di sole brillano di un verde abbagliante. È un piccolo grumo di case e cascine raccolte intorno alla Pieve di San Giorgio, dove oggi vivono meno di cento abitanti e dove il tempo sembra essersi fermato alla fine dell’Ottocento, quando qui si consumò una tragedia familiare che coinvolse alcuni antenati della mia nonna materna.

I Lucchini di Bilegno

Nella primavera del 1881 vivevano a Bilegno come fittavoli il mio trisnonno Ernesto Anastasio Lucchini e tre dei suoi sei fratelli: Giovanni, Giuseppe e Stefano. I quattro fratelli Lucchini erano originari di Seminò, una frazione di Ziano Piacentino a pochi chilometri di distanza. Da alcuni anni si erano trasferiti con le loro famiglie a Bilegno perché lì avevano affittato un’azienda agricola.

Bilegno, Borgonovo e Seminò (da Google)

Giovanni era il maggiore dei quattro fratelli Lucchini, nel 1881 aveva 47 anni. Si era sposato nel 1857 con Teresa Politi, con la quale aveva messo al mondo 8 figli, di cui 2 erano purtroppo morti in tenera età.

Ernesto Anastasio, il mio trisnonno, aveva 38 anni ed era sposato con Maria Parmigiani. Nel 1881, a Bilegno, i due avevano già 5 figli; negli anni successivi ne metteranno al mondo ben altri 7, tra cui l’ultimo nato, Alberto Romeo, che diventerà il mio bisnonno.

Il terzo fratello, Giuseppe, aveva 35 anni e si era da poco sposato con Clementina Bisi.

Il quarto e più piccolo dei fratelli Lucchini si chiamava Stefano. Aveva solo 27 anni, era ancora celibe ed era soprannominato “Il Magrein” per la sua costituzione fisica piuttosto smilza.


Giovanni, per anzianità ed esperienza, doveva sicuramente avere un ruolo preminente tra i fratelli e di fatto era lui a gestire l’attività dell’azienda agricola che i quattro avevano preso in affitto.

Ma chi era nello specifico il fittavolo? I termini che più frequentemente si trovano nelle fonti storiche relative al lavoro in agricoltura sono bracciante, mezzadro e fittavolo.

Il bracciante era un operaio che prestava le proprie braccia come forza lavoro, senza possedere aratro o buoi, in cambio di una retribuzione in natura o in denaro. Il bracciante lavorava la terra alle dipendenze dirette di un proprietario terriero o di chi per esso ne faceva le veci, come il mezzadro.

Il mezzadro lavorava un piccolo podere con un proprio aratro, senza dividere il raccolto esattamente a metà con il proprietario, ma pagando un affitto prestabilito, in genere in natura. La sua parte della produzione era destinata al consumo della famiglia o al baratto con altri beni di prima necessità.

Il fittavolo era giuridicamente un affittuario come il mezzadro, ma non produceva solo per il consumo diretto della famiglia, bensì per vendere i prodotti sul mercato. Il fittavolo coltivava grandi appezzamenti di terra con l'aiuto di braccianti a giornata o stagionali. Il rapporto con il proprietario dei terreni era regolato da un contratto di locazione molto dettagliato, che riportava precise descrizioni dei beni concessi in affitto, delle modalità d’uso degli stessi, del canone da corrispondere indipendentemente dalla resa delle coltivazioni. 

Nell'800 il fittavolo era quindi un vero e proprio imprenditore agricolo, che impiegava anche personale specializzato. Le famiglie dei massari e dei fittavoli erano sempre molto numerose e quasi sempre composte da più nuclei coniugali e più generazioni. Abitavano per lo più in case isolate, lontane dal paese, grandi cascine costituite un insieme di edifici, abitazioni, stalle, fienili, granai raccolti attorno ad una grande corte.

Possiamo quindi immaginare la vita dei fratelli Lucchini a Bilegno in quegli anni di fine ‘800, scanditi dai ritmi eterni delle stagioni e dell’attività agricola. 


Si iniziava ogni annata con la preparazione del terreno e la semina, usando aratri tirati da buoi. Seguiva poi il taglio e la raccolta del fieno, un periodo di lavoro intenso. Si passava poi alla trebbiatura, per separare i chicchi dalla pula. I cereali come il grano venivano utilizzati per produrre farina e mangimi. Il fieno veniva tagliato e essiccato per nutrire il bestiame durante l'inverno. Dalla vite si ricavava il vino. Si coltivava anche l’orto per produrre pomodori, carote, fagioli, piselli, patate. Si allevavano mucche per latte e formaggio, maiali per carne e salumi, galline per uova e pecore per la lana.

Gli uomini erano principalmente occupati nei campi e nei lavori pesanti, mentre le donne erano impiegate nella cura della casa, nella filatura, nella mungitura e nelle colture dell'orto.

La tragedia

La mattina del 10 aprile 1881, domenica, mentre si accingevano ad uscire con le famiglie per recarsi a Messa alla Pieve di San Giorgio, tra i quattro fratelli Lucchini nacque una discussione.


La pieve di San Giorgio a Bilegno in una antica cartolina

Il più giovane dei quattro, Stefano, chiese ai fratelli le lire necessarie per andare a Borgonovo a comprare un cappello nuovo. La risposta dei fratelli maggiori fu brusca e negativa, non tanto per il modesto ammontare della cifra, ma forse perché semplicemente il momento era il meno adatto o il tono della richiesta era stato sgarbato. 

Stefano, che probabilmente già soffriva per il suo ruolo subalterno rispetto ai fratelli maggiori, si adirò moltissimo. Uscì di casa imprecando e bestemmiando, ed invece di andare a messa con i fratelli e gli altri parenti prese un cavallo e se ne andò a sbollire la rabbia a casa di una sorella, Elisa, che dopo essersi sposata era rimasta a vivere a Ziano Piacentino.

I tre fratelli maggiori attesero “Il Magrein” per tutto il giorno, biasimando a più riprese il suo comportamento. Quando la sera lo videro finalmente tornare, gli andarono incontro nel cortile e gli furono subito intorno per dirgliene quattro. Stefano, che a casa della sorella aveva ben mangiato e soprattutto ben bevuto, reagì malamente e la discussione purtroppo degenerò.


Il tono delle voci iniziò a salire, le grida delle reciproche accuse tra i quattro fratelli fecero accorrere le mogli, i nipoti e alcuni braccianti. Racconterà in seguito Stefano che uno dei fratelli, nel colmo dell’ira, l’aveva preso per il collo, minacciando di strangolarlo. 

Forse perché gli dava fastidio sentirsi stringere, forse perché per la rabbia e per l’alcol ingerito non era tanto presente, fatto sta che Stefano estrasse un coltello che “per caso” teneva in una tasca interna della giacca ed iniziò a menare fendenti, con la sola intenzione – come dirà in seguito – “di tenere lontani gli avversari, né per offenderli, né per ucciderli”.

Il caso – o la disgrazia – volle però che la punta del coltello si andasse a piantare nel torace del fratello Giuseppe, che stramazzò al suolo. Stefano continuò a mulinare il coltello, ferendo anche altri due fratelli, Giovanni ed Ernesto, e la nipote Maria, figlia ventenne di Giovanni, che attratta dalle grida era intervenuta anch’essa per sedare gli animi.

Mentre “Il Magrein” si allontanava imprecando, le donne accorsero intorno ai tre feriti. Giuseppe fu sollevato da due braccianti e trasportato in casa; si cercò di tamponare la ferita al petto, che sanguinava moltissimo, mentre la moglie Clementina continuava a chiamarlo e a scuoterlo, purtroppo inutilmente, perché Giuseppe era già morto.

Il fratello Giovanni aveva una profonda ferita al volto, sua figlia Maria era ferita ad una mano.  Anche Ernesto aveva un brutto taglio al braccio destro. Si apprestò un calesse per portarli a Borgonovo dal medico condotto per farli medicare. Mentre calava la notte, nel podere Lucchini si udiva solo il pianto disperato di Clementina Bisi che invocava il marito Giuseppe.

I quotidiani piacentini pubblicarono il giorno dopo vari articoli sulla vicenda, con particolari non del tutto corrispondenti ai fatti realmente avvenuti. In uno leggiamo che “…l’omicida, dopo essersi imbrattato le mani nel sangue fraterno, sia corso per il paese tenendo in mano il coltello uccisore, esclamando come un forsennato ‘in casa mia comando io, voglio uccidere tutti!’”

Anche il “Corriere della Sera” pubblicò a Milano il 13 aprile 1881 un articolo sul delitto.

Corriere della Sera, 13 aprile 1881

Lucchini Stefano fu fermato la mattina successiva al delitto, 11 aprile 1881, dai Regi Carabinieri di Borgonovo, giunti sul posto, ove lo trovarono addormentato in un fienile accanto alla sua abitazione. 

Regio Carabiniere nel 1875 (da Wikipedia)

“Il Magrein” venne portato in caserma a Borgonovo, dove erano giunti da Piacenza il Giudice Istruttore, il Sostituto Procuratore del Re e il Vice Cancelliere del Tribunale. Dopo l’interrogatorio, fu convalidato l’arresto e l’assassino fu tradotto alle antiche carceri di Piacenza in Palazzo Madama, adiacenti al Tribunale.

Esterno dell'antico carcere di Piacenza

Le celle dell'antico carcere di Piacenza

I magistrati si recarono poi a Bilegno ove interrogarono i fratelli, i familiari e le altre persone presenti al fatto.

Fu disposta l’autopsia del cadavere di Lucchini Giuseppe, che venne effettuata a Borgonovo il giorno seguente, 12 aprile; lo stesso giorno il Giudice Istruttore ne autorizzò il seppellimento.

Permesso di seppellimento di Lucchini Giuseppe (da www.antenati.net)

Il processo a Stefano Lucchini

In quegli anni di fine ‘800 la Giustizia era molto più rapida ed efficiente che al giorno d’oggi. A distanza di soli tre mesi dal delitto venne istruito il processo, che si tenne il 26 e 27 luglio 1881 davanti alla Corte d’Assise di Piacenza, riunita nel Palazzo Landi in Vicolo del Consiglio, antica sede dei tribunali.

Palazzo Landi sede dei tribunali

Una fortunata ricerca presso l’Archivio di Stato Di Piacenza mi ha consentito di ritrovare dopo 144 anni i verbali d’udienza e la copia della sentenza del processo a Stefano Lucchini.

Archivio di Stato di Piacenza

La Corte d’Assise era composta da tre magistrati: il Presidente era il Consigliere d’Appello Gregori Cav. Gregorio, i Giudici Rossi Filippo e Verdelli Francesco. Pubblico Ministero era il Procuratore del Re Costa Cav. Antonio, difensore di Stefano Lucchini l’Avvocato Giuseppe Calda.

L’Avvocato Giuseppe Calda (1849-1929) è stato uno dei principi del Foro piacentino, per 25 anni Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Piacenza. A lui la città di Piacenza ha anche intitolato una via nella zona sud.

Avvocato Giuseppe Calda (da www.caldalegal.it)

Per prima cosa, il Presidente procedette all’estrazione dei 14 giudici popolari da una lista di 30 cittadini; durante l’estrazione, altri 12 giurati vennero ricusati, di cui 4 dal Pubblico Ministero e 8 dall’Avvocato Difensore.

Ecco i nomi dei 14 giurati estratti ed accettati dalle parti:

  • Charvoz Maurizio, impiegato di Piacenza
  • Ghelfi Lodovico, contribuente di Piacenza
  • Moglia Giovanni, ex Consigliere Comunale di Cadeo (PC)
  • Antozzi Giuseppe, negoziante di Piacenza
  • Zangrandi Achille, contribuente di Monticelli (PC)
  • Bionda Fiorenzo, contribuente di Fiorenzuola (Pc)
  • Vescovo Vittorio, contribuente di Alseno (PC)
  • Cordani Pietro, Consigliere Comunale di Groppovisdomo (PC)
  • Baderna Alberto, contribuente di Piacenza
  • Bassi Colombano, contribuente di Piacenza
  • Cigala-Fulcosi Conte Giuseppe, contribuente di Agazzano (PC)
  • Gioia Carlo, contribuente di Piacenza
  • Raffi Emilio, contribuente di Castel San Giovanni (PC)
  • Maldotti Tommaso, contribuente di Vernasca (PC)

Il primo giurato estratto, Charvoz, fu nominato capo della giuria; gli ultimi due, Raffi e Maldotti, giudici supplenti.

I 14 giurati furono fatti accomodare nei banchi loro destinati di fronte al banco dell’accusato. L’usciere Luigi Giorgi per ordine del Presidente dichiarò aperta la seduta.


Dopo aver chiesto all’imputato di dichiarare le proprie generalità, il presidente lesse ai giurati la formula di giuramento prevista dal Codice di Procedura Penale; ciascuno di essi, toccando con la mano destra la formula, rispose “Giuro”. Il Cancelliere lesse all’imputato l’atto di accusa.

1.     Assassinio. Per avere, la sera del 10 aprile 1881 verso le ore sette e mezzo in Bilegno e nella comune casa di abitazione, col preconcetto disegno di attentare alla vita del proprio fratello germano Giuseppe Lucchini e con l’attuale intenzione di ucciderlo, vibrato al medesimo un colpo di coltello sul lato destro del torace in corrispondenza alla cartilagine della quarta costa, che ferendo nello stesso tempo il polmone, il pericardio, il cuore ed il bulbo dell’aorta lo rese all’istante cadavere;

2.     Ferimento premeditato. Per avere, con disegno formato prima dell’azione, nelle circostanze di tempo e di luogo suindicate, menato dei colpi di coltello agli altri due suoi fratelli germani Giovanni ed Ernesto ed alla nipote Maria Lucchini cagionando (a) al primo una ferita alla faccia in prossimità dell’occhio sinistro guarita in giorni trentacinque, lasciando però deturpamento permanente nell’offeso; (b) al secondo, una ferita al braccio destro che gli produsse malattia ed incapacità al lavoro per giorni trentadue;  (c) ed alla Lucchini Maria una ferita al dito mignolo della mano destra guarita nello spazio di dieci giorni.

Dopo la lettura dell’atto di accusa, il Presidente ne spiegò il contenuto all’accusato, dicendogli: “Ecco di che voi siete accusato, ora sentirete le prove che si hanno contro di voi”.

Il Cancelliere lesse ad alta voce le liste dei 18 testimoni da esaminare e il Presidente ammonì tutti i testimoni sull’importanza morale del giuramento, sul vincolo religioso che per esso i credenti contraggono verso Dio e sulle pene stabilite contro i colpevoli di falsa testimonianza e di reticenza. Li fece poi accomodare nelle stanze a loro riservate perché non potessero vedere o udire ciò che avveniva in aula.

Il Presidente spiegò poi ai giurati la facoltà loro concessa dalla legge di poter domandare ai testimoni e all’accusato, dopo aver da lui ottenuto facoltà di parola, tutti i chiarimenti necessari alla scoperta del vero e passò poi ad interrogare l’accusato, dal quale ottenne categoriche risposte.

Fu poi presentato all’accusato, al Pubblico Ministero, alla difesa ed ai giurati il coltello sequestrato al Lucchini. 

Antico coltello della fine dell'800

Il presidente chiese infine al Cancelliere di leggere tutte le perizie medico-legali sulle tre vittime e la perizia sulle scalfitture e abrasioni riportate dall’imputato.

Dopo tale lettura il Presidente procedette all’esame dei testimoni. Furono ascoltati per primi, nell’ordine, Lucchini Giovanni, Lucchini Ernesto, Lucchini Maria, Parmigiani Maria moglie di Ernesto, Politi Teresa moglie di Giovanni, Bisi Clementina moglie dell’ucciso Giuseppe, Lucchini Pietro figlio di Giovanni e Ruggeri Carlo agricoltore di Ziano, probabilmente marito della sorella Elisa Lucchini. Ad ognuno di essi il Presidente spiegò il diritto loro accordato dalla legge, visto il grado di parentela con l’accusato, di astenersi dal deporre; tutti risposero di non voler deporre e per questo vennero congedati.

Il presidente passò poi all’esame di 6 testimoni citati dall’accusa:

  • Ghizzoni Giuseppe di anni 38, fabbro ferraio residente in Bilegno;
  • Pastorelli Luigi di anni 22, residente in Bilegno, bifolco alle dipendenze della famiglia Lucchini;
  • Rossi Stefano di anni 40, proprietario residente in Bilegno;
  • Sarchi Agostino di anni 18, famiglio residente alla Calcinara di Bilegno;
  • Maffi Giuseppe di anni 15, famiglio alle dipendenze della famiglia Lucchini, residente a Bilegno;
  • Cattani Camillo di anni 32, barbiere residente a Bilegno.

Con il termine famiglio si indicava in quegli anni una persona addetta alla cura, al governo e alla mungitura delle mucche, o in genere a lavori dell’azienda agricola, che conviveva con la famiglia del fittavolo.

Furono poi ascoltati 4 testimoni citati dalla difesa:

  • Massari Paolo di anni 55, agricoltore residente a Agazzano;
  • Faccioli Aurelio di anni 42, stalliere a Borgonovo;
  • Battini Monica di anni 25, agricoltrice residente a Bilegno;
  • Rossi Francesco di anni 36, agricoltore a Borgonovo.

Ognuno dei 10 testimoni prima di deporre prestò giuramento pronunciando la frase “Giuro di dire tutta la verità, null’altro che la verità”.

Terminato l’esame dei testimoni, il Presidente fece leggere dal Cancelliere la perizia sull’arma feritrice e i certificati penale e di moralità dell’accusato. Dopodiché, “per conveniente riposo”, il Presidente rinviò la continuazione della causa alle ore nove antimeridiane del giorno seguente.

L’indomani mattina, 27 luglio 1881, il dibattimento riprese con l’appello dei giurati e dei testimoni, terminato il quale il Presidente diede la parola al Pubblico Ministero, che chiese ai giurati per Lucchini Stefano, escludendo qualsiasi provocazione, una sentenza di condanna a 15 anni di lavori forzati, oltre all’interdizione dai pubblici uffici, ai danni e alle spese.

L’Avvocato Calda, difensore dell’imputato, pronunciò la sua arringa, chiedendo invece un verdetto affermativo sulla questione del ferimento susseguito da morte, ma commesso “nell’impeto dell’ira in seguito di provocazione e coll’ammissione di circostanze attenuanti”; chiese quindi la riduzione della pena prevista dalla legge.

I dodici giurati titolari e la corte si ritirarono in camera di consiglio per deliberare; i due giudici supplenti rimasero a disposizione nell’aula dell’udienza “senza poter comunicare con chicchessia”.

La sentenza

Dopo congruo periodo di tempo, i giurati e la corte rientrarono in aula. Il Presidente chiese al capo dei giurati quale fosse il risultato delle loro deliberazioni. Il capo dei giurati, alzatosi in piedi e tenendo la mano destra sul cuore, rispose: “Sul mio onore e sulla mia coscienza la dichiarazione dei giurati è questa: “e ne diede lettura.

Frontespizio della sentenza (Archivio di Stato di Piacenza)

Il presidente fece quindi rientrare in aula l’accusato Lucchini Stefano e chiese al Cancelliere di leggere la dichiarazione dei giurati: 

verdetto di non colpevolezza in ordine al ferimento della Maria Lucchini, per il quale Lucchini Stefano venne assolto; 

verdetto di colpevolezza col concorso di circostanze attenuanti per l’uccisione di Lucchini Giuseppe (omicidio volontario) ed il ferimento di Lucchini Giovanni e Lucchini Ernesto (ferimento volontario).

Per le ammesse circostanze attenuanti la pena ordinaria venne ridotta come previsto dalla legge. Lucchini Stefano venne quindi condannato alla pena di anni 12 di lavori forzati, all’interdizione dai pubblici uffici, all’indennità verso le parti lese e alle spese del giudizio.

Non sono ancora riuscito a scoprire in quale stabilimento penale fu inviato “Il Magrein” e cosa fu di lui quando all’età di 42 anni, scontata la pena, tornò libero.  Le ricerche continuano.

A Bilegno, nel podere Lucchini, la vita riprese a scorrere con i consueti ritmi. Della tragedia avvenuta non si parlò più, tanto che nelle generazioni successive se ne perse completamente la memoria. È per questo che a distanza di 144 anni da quei tragici fatti, ho voluto ricostruire l’intera vicenda.


Ringraziamenti

Ringrazio i funzionari dell’Archivio di Stato di Piacenza per il fondamentale contributo nella ricerca dei documenti relativi al processo.

Ringrazio Matteo Calegari di Castel San Giovanni per il prezioso aiuto nelle ricerche.

Ringrazio Giacomo Nicelli del quotidiano piacentino "La Libertà" per i consigli nella ricerca delle fonti di stampa

Fonti

Archivio di Stato di Piacenza, Fondo Corte d’Assise, Sentenze e Verbali d’Udienza, Volume 19, Anni 1880-1881

Biblioteca Passerini Landi di Piacenza, Periodici Ottocenteschi:

 “La Verità”, 12 aprile 1881 e 28 Luglio 1881

 “L’Ordine – Gazzetta di Piacenza”, 11 aprile 1881 e 12 aprile 1881

Archivio Storico del Corriere della Sera, 13 aprile 1881

Ministero dei Beni Culturali, Portale Antenati, Ziano Piacentino e Borgonovo Val Tidone

I quadri ottocenteschi che illustrano le varie fasi della vicenda sono realizzati dall'intelligenza artificiale ChatGPT.

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