Lucchini Vittorio, antifascista, detenuto politico.

Il mio prozio Lucchini Vittorio, convinto antifascista, nel 1937 per le sue idee politiche fu arrestato dalla polizia politica del Regime e successivamente condannato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato ed incarcerato. Una fortunata ricerca presso l’Archivio Centrale dello Stato in Roma mi ha consentito di ricostruire nei dettagli la sua vicenda giudiziaria.


Il mio prozio Lucchini Vittorio era nato il 22 aprile 1906 a Gragnano Trebbiense, in provincia di Piacenza. Era il fratello minore di mia nonna Luigia; quando mia nonna nel 1921 si trasferì a Genova San Pier d’Arena per sposare mio nonno, Vittorio la seguì, trovando impiego come operaio alle Acciaierie Ansaldo.

 

Le Acciaierie Ansaldo

Nel 1898, sulla destra del torrente Polcevera, in località Campi di Cornigliano, ad iniziativa dell’Ansaldo, era entrata in servizio una piccola fonderia d’acciaio, che negli anni successivi assunse la denominazione di Fonderie ed Acciaierie di Campi.


Negli anni trenta, lo stabilimento forniva dritti di poppa per piroscafi, bracci portaelica, linee d’assi per navi mercantili e da guerra, organi per motori navali, assi a gomito in acciaio al nickel per ferrovie, rotori per turbine, valvole, ancore, catene, eliche e così via. Nel 1934 lo stabilimento fu staccato dall’Ansaldo ed unito al complesso siderurgico di Cogne, nel tentativo di concentrare ed organizzare la produzione, diventando così autonomo, con la ragione sociale di Società Italiana Acciaierie di Cornigliano – SIAC. Nel 1937, con la costituzione della Finsider, entrò a far parte del gruppo.[1]

La militanza politica di Vittorio Lucchini

 

Fu proprio attraverso i colleghi di lavoro delle Acciaierie di Cornigliano che Vittorio Lucchini entrò in contatto con gli ideali comunisti e li fece propri, in totale contrasto con l’ideologia fascista che proprio in quegli anni si stava impadronendo del potere.


Tessera del PCd’I – 1924

In famiglia, si tramanda il ricordo di scontri violenti con squadracce fasciste in cui il giovane prozio Vittorio, iscritto al Partito Comunista d’Italia (PCd’I), rimase più volte coinvolto, partecipando agli scioperi, alle occupazioni, alle manifestazioni di protesta e alle lotte che caratterizzarono gli anni del primo dopoguerra.

 

Con la promulgazione delle "leggi speciali" e l'arresto di Gramsci nel novembre 1926, il regime mise al bando tutti i partiti politici; il PCd'I fu sciolto e l’attività politica divenne clandestina. Il regime iniziò a perseguitare e incarcerare i membri del partito.

 

L’arresto

 

Il 25 febbraio 1937 Lucchini Vittorio insieme ad altri 21 cittadini e colleghi di lavoro fu arrestato e incarcerato a Genova dall’OVRA, la polizia politica del regime fascista.  Le indagini che portarono al suo arresto erano state condotte dal Commissario di P.S. Renato Wenzel, alle dirette dipendenze e dietro istruzioni del Questore di Genova Comm. Rodolfo Buzzi. 


Dopo oltre un mese e mezzo, il 13 aprile 1937 il Ministero dell’Interno - Direzione Generale della Pubblica Sicurezza - autorizzò a mezzo telegramma la Prefettura di Genova a denunziare al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato n. 22 “individui”, colpevoli di aver tentato la ricostituzione del partito comunista. Al n. 21 dell’elenco compare il nome di Lucchini Vittorio.

Ministero dell’Interno – 15 aprile 1937


L’informazione venne trasmessa anche al Casellario Politico Centrale, che creò un fascicolo a lui intestato, avente il numero 128015. È questo il fascicolo che ho ritrovato dopo 85 anni all’Archivio Centrale dello Stato e che, unitamente al fascicolo del processo, anch’esso conservato dall’Archivio Centrale dello Stato, mi ha consentito di ricostruire quanto accaduto al mio prozio. 



Copertina del fascicolo del Casellario Politico Centrale

Il Casellario Politico Centrale

 

Il Casellario Politico Centrale era un ufficio della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza del Regno d'Italia che aveva il compito di curare il sistematico aggiornamento dell'anagrafe dei cosiddetti "sovversivi, degli oziosi e dei vagabondi”.

 

Il "servizio dello schedario biografico degli affiliati ai partiti sovversivi maggiormente pericolosi nei rapporti dell'ordine e della Pubblica sicurezza" era stato istituito nel 1894 e fu una delle misure che lo Stato Unitario assunse di fronte all'affacciarsi sulla scena politica italiana delle prime organizzazioni a carattere nazionale del proletariato laico e cattolico.

 

Nel primo dopoguerra, il Casellario Politico Centrale (detto in sigla, nel gergo di polizia, CPC) fu alimentato con schedature relative soprattutto ad anarchicisocialisti e comunisti.

 

Durante il fascismo, il CPC fu ampliato e potenziato; il discorso pronunciato alla Camera dei deputati il 3 gennaio 1925 da Mussolini chiamava gli apparati della polizia a una lotta più decisa e efficace contro le opposizioni, fino al loro completo annientamento. Le conseguenze furono immediate: i prefetti furono subito invitati ad assumere iniziative di stampo repressivo, mentre in Parlamento fu presentato il disegno di legge che delegava al Governo la facoltà di emendare la legge di pubblica sicurezza.

 

Dopo l'approvazione del nuovo testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e l'emanazione delle leggi fascistissime tra il 1925 e il 1926, nel 1930 era stata creata l'O.V.R.A. “Opera Vigilanza Repressione Antifascismo”, la polizia politica del regime fascista. Il CPC fu organizzato come ufficio dipendente dalla Sezione I della Divisione Affari Generali e Riservati del Ministero dell’Interno e procedette al riordino di tutto il materiale esistente.

 

Scopo e utilità del servizio, stando alla sua circolare istitutiva, era quello di "mantenere alta l'attenzione delle Autorità di Pubblica Sicurezza sui maneggi dei rivoluzionari più pericolosi e di raccogliere presso la D.G. della P.S., per averli sempre a portata di mano, tutti gli elementi relativi alla operosità ogni dì più intensa e varia di essi".

 

Fino al 1922 le persone schedate furono circa quarantamila; in epoca fascista furono schedate altre centodiecimila persone.


La denuncia

 

Nell’atto di denuncia, datato 19 aprile 1937 ed inviato dalla Questura di Genova al Tribunale speciale per la Difesa dello Stato, il Questore di Genova Rodolfo Buzzi scrive quanto segue:

 

“Fin dall’estate dell’anno scorso risultava che il partito comunista italiano aveva stabilito di sviluppare l’attività clandestina nel Regno con nuovi metodi di lotta, tendenti alla penetrazione graduale negli organismi più dedicati del regime, col pretesto delle rivendicazioni economiche e della inadempienza a quello che fu il programma fascista del 1919. I nuovi metodi di lotta ebbero come programma il proclama del partito comunista apparso su “Lo Stato Operaio” dell’agosto 1936, firmato dagli esponenti più in vista dei comunisti fuorusciti. La Regia Questura aveva già rilevato e segnalato, acquistandone successivamente certezza, che nelle frequenti assemblee sindacali, specie tra le maestranze della Riviera di Ponente, alcuni operai prendevano la parola in modo insolitamente vivace ed aggressivo, accusando gli industriali di inosservanza dei contratti collettivi di lavoro e le organizzazioni sindacali di scarso interessamento alle rivendicazioni economiche".


Frontespizio della denuncia del 19.4.1937

"Nell’agosto dell’anno scorso fu accertato che anche nella provincia di Genova l’attività legale del partito comunista era in pieno sviluppo, in quanto si leggeva sui libelli d’oltralpe di questioni interessanti gli stabilimenti industriali della grande Genova. L’organizzazione del gruppo genovese del partito comunista, diretta da funzionari del partito stesso qui venuti appositamente da Parigi, aveva già preso consistenza e sviluppava il nuovo programma comunista cercando di penetrare nelle più delicate organizzazioni del regime ed attirando altresì nella sua sfera d’azione alcuni rinnegati, traditori della Causa Fascista.

 

L’attività legale del partito comunista consiste particolarmente nel cercare di portare gli operai alla conquista dei posti direttivi nelle organizzazioni sindacali del Regime, allo scopo di ottenere rivendicazioni e miglioramenti economici. Non è prevedibile quali sarebbero state nel tempo le possibilità di sviluppo di tale organizzazione se la Regia Questura non fosse intervenuta in maniera energica, tale da stroncare, dal vertice alla base, tale perniciosa e pericolosa propaganda diretta contro il Regime".

 

Segue nella denuncia l’elenco dei 22 “individui” arrestati e denunciati.


Prefettura di Genova a CPC – 17.5.1937

Le accuse a Lucchini Vittorio

 

Nella denuncia del 19 aprile 1937 Lucchini Vittorio venne accusato di “aver preso parte all’organizzazione comunista in Genova, diretta particolarmente allo sviluppo dell’attività legale del partito comunista”.

 

“Lucchini Vittorio, detto “Sullivan”, fu Alberto e di Rossi Giovanna, nato a Gragnano Trebbiense (Piacenza) il 22 Aprile 1906, domiciliato a San Pier d’Arena, manovale nelle acciaierie Ansaldo di Campi. Venne presentato nel settembre 1936 da Montecucco Mario, nato a San Pier d’Arena nel 1907, a Berretti Ruggero, nato a Sassetto (Li) nel 1907. Il Berretti gli propagandò le idee comuniste e lo presentò a Badino Pierino, nato a Rocca Grimalda (AL) nel 1903. Quest’ultimo lo invitò a svolgere attività legale, incitando i compagni di lavoro delle Acciaierie Ansaldo a protestare per la scarsezza della paga e per le inadempienze dei patti di lavoro. Ricevette stampa comunista dal Berretti e ne passò al Montecucco”.

 

Il 12 maggio 1937, un mese e mezzo dopo l’arresto di Lucchini Vittorio, il Vice Procuratore Generale del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato Giuseppe Montalto dispose il suo trasferimento e quello degli altri denunciati dal Carcere di Genova al Carcere Regina Coeli di Roma.  I detenuti arrivarono a Roma il 14 maggio.


Telegramma di conferma del trasferimento dei detenuti - 13.5.1937

Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato

 

Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato era stato istituito con la legge 25 novembre 1926, n. 2008 (Provvedimenti per la difesa dello Stato) ed era un organo speciale del regime fascista, competente a giudicare i reati contro la sicurezza dello Stato e del regime. Aveva il potere di diffidare, ammonire e condannare gli imputati politici ritenuti pericolosi per l'ordine pubblico e la sicurezza del regime stesso. Con la stessa legge di costituzione del tribunale venne reintrodotta la pena di morte per alcuni reati a carattere politico.

 

Il Tribunale speciale operava secondo le norme del Codice Penale per l'esercito in tempo di guerra. Le sue sentenze non erano suscettibili di ricorso né di alcun mezzo di impugnazione, salva la revisione. Il Tribunale operava in modo sommario, senza alcuna garanzia per gli imputati.

 

La sua prima sessione ebbe luogo il 1º febbraio 1927 alle ore 10 presso la sesta sezione del Tribunale penale di Roma. Secondo lo storico Alberto Acquarone "Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato fu indubbiamente uno degli strumenti più odiosi ed efficaci della dittatura e la sua attività, ampiamente pubblicizzata, contribuì non poco, con la sua ombra minacciosa, a distogliere molti oppositori del regime da un'azione concreta contro di esso".

Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato era costituito da:

  • un presidente, scelto tra gli ufficiali generali del Regio Esercito, della Regia Marina, della Regia Aeronautica o della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale;
  • cinque giudici, scelti tra gli ufficiali della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale;
  • un relatore, senza diritto di voto, scelto tra il personale della giustizia militare.

Dopo la denuncia da parte dell'OVRA il caso veniva affidato alla sezione istruttoria del Tribunale. L'istruttoria poteva durare settimane nel caso di reati lievi, ma anche molti mesi o anni nei casi più impegnativi, come la ricostituzione di partiti antifascisti o attentati. Durante tutto questo periodo gli imputati rimanevano in carcere. In prigione gli imputati subivano interrogatori pesanti, con bastonature e torture, in stato di isolamento, privi di comunicazioni con i familiari.

 

Se l'istruttoria era lunga, il processo raramente durava più di due o tre giorni. Sino a pochi giorni dal processo gli imputati ignoravano su cosa si basassero le accuse. Poco prima dell'inizio dell'udienza gli imputati venivano condotti nell'aula incatenati. Quando comparivano in aula, tutto era già deciso. I giudici erano in alta uniforme della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.) con tutte le decorazioni, i pochi giudici provenienti dalla magistratura ordinaria o militare portavano la toga. Il pubblico e i rappresentanti della stampa erano attentamente selezionati.

 

La procedura era sbrigativa: dopo l'interrogatorio dei testimoni d'accusa e a discarico (ma questi ultimi erano molto rari per il rischio di essere a loro volta incriminati) si passava alle richieste del pubblico ministero e della difesa e alla sentenza.


Gli avvocati raramente potevano sviluppare un'organica linea difensiva, poiché spesso subivano pesanti intimidazioni. Si limitavano frequentemente a conformarsi alle tesi accusatorie, in alcuni casi erano addirittura conniventi con l’accusa. 

Al momento della sentenza venivano prese misure eccezionali per soffocare eventuali contestazioni da parte degli imputati; ogni eventuale protesta comportava un aumento della pena. Emilio Lussu ricorda in proposito: "ai fianchi di ogni imputato vengono collocati due carabinieri con la precisa consegna di imbavagliare chi tenti profanare la solennità della giustizia con dichiarazioni irriverenti".

Il 30 novembre 1930 il socialista Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica Italiana, venne picchiato a sangue perché, sorprendendo i carabinieri di guardia, era riuscito a gridare prima della sentenza "Abbasso il fascismo! Viva il socialismo!"

Le accuse a Lucchini Vittorio

Lucchini Vittorio rimase detenuto nelle carceri Regina Coeli di Roma in attesa del processo per ben 11 mesi.

 

Nell’atto di accusa, firmato dal Vice Procuratore Generale Giuseppe Montalto e datato 10 giugno 1937, leggiamo quanto segue:

 

“L’istruttoria, ora compiuta, ha confermato in pieno quanto a carico di ciascuno degli imputati già risultava dalla denuncia della autorità di P.S. Trattasi in sostanza dello svolgimento di un’attività secondo i nuovi e più insidiosi metodi escogitati dal partito comunista, ormai convinto che i sistemi della propaganda e della azione diretta non potevano dare risultati tangibili per la resistenza che naturalmente veniva opposta dalle masse,  aggiornate ormai dell’opera infeconda e deleteria del comunismo, e per la solerte vigilanza da parte dell’Autorità.

 

Ecco sorgere la necessità per il partito comunista di camuffare la propria nefasta azione sotto una vernice di legalitarismo, nella speranza che i lavoratori potessero con maggiore facilità essere avvicinati e tratti in inganno sugli scopi effettivi dell’opera verso essi spiegata dai falsi patroni e, nell’illusione, anche, che l’Autorità nulla potesse opporre ad una azione compiuta sotto le apparenze della legalità. Si avvicinano, così, i lavoratori e si fa loro credere di essere ingannati dai padroni circa il trattamento economico e morale che ad essi spetterebbe secondo i contratti di lavoro. Si creano con tutta facilità delle rivendicazioni, fondate molto spesso su interpretazioni arbitrarie e cavillose delle clausole contrattuali, e si spingono gli operai e i contadini a premere sui sindacati rispettivi affinché convochino assemblee e richiedano il riconoscimento di quelli che sarebbero i diritti conculcati e le spettanze trascurate. Si forma, così, uno stato di agitazione nelle masse, che nell’attesa vengono via via convinte, non solo della insufficienza funzionale dei sindacati fascisti, ma anche della loro collusione, ai danni dei lavoratori, con le organizza azioni dei datori di lavoro. 

 

E, frattanto, i mestatori, con i contatti che hanno coi lavoratori e coi fiduciari di fabbrica e di categoria, riescono a penetrare nelle stesse organizzazioni sindacali operaie e ad irretire i fiduciari medesimi, facendone strumento della loro azione e legandoli a questa definitivamente.  Nello stesso tempo, familiarizzatisi con i lavoratori avvicinati, fanno poco alla volta scivolare nelle loro tasche o tra innocenti moduli sindacali la stampa comunista, che così compie la sua opera di convinzione e di proselitismo.

 

E se le rivendicazioni sfociano in un risultato favorevole agli operai e contadini, il merito è, naturalmente, del partito comunista che ha posto le basi stesse della richiesta ed accompagnato l’azione di realizzazione, mentre se il risultato è negativo si ha un argomento di più, per i lavoratori delusi di legarsi al comunismo che promette la felicità terrena, e per i maneggioni di indirizzare le masse verso la loro congrega in odio al capitalismo ed al Regime Fascista che accusano di esserne l’esponente.

 

Ecco le origini, lo svolgimento e i risultati dell’attività cosiddetta legale attuata in provincia di Genova fra gli operai dei vari stabilimenti. Attività più che mai insidiosa e nociva, in quanto mirata a colpire il regime in ciò che costituisce una delle principali sue caratteristiche, il corporativismo, col quale il fascismo attua contemporaneamente i suoi postulati di disciplina e di armonizzazione fra il capitale ed il lavoro, nel duplice interesse supremo di potenziare al massimo le forze produttive della nazione e di raggiungere una più alta giustizia sociale. A tutto vantaggio, evidentemente del comunismo, e dei suoi fini tendenti, come è noto, a sovvertire gli ordinamenti sociali e politici dello Stato per stabilire poi la cosiddetta dittatura del proletariato.”

 

Tutti gli imputati furono accusati del delitto di cui all’art. 270 capov. 2° del Codice Penale, per aver partecipato ad associazione sovversiva, e agli artt. 110 e 272 del Codice Penale, per aver svolto propaganda sovversiva.

 

Ad alcuni degli imputati furono contestati anche i delitti di espatrio clandestino per motivi politici, di ricostituzione, organizzazione e direzione di associazione sovversiva e di uso di passaporti, carte d’identità e tessere varie contraffatte.


Notifica dell’atto d’accusa a Lucchini Vittorio

Nel ricevere l’atto d’accusa, Lucchini Vittorio dichiarò di prendere atto di quanto gli veniva notificato e chiese la nomina di un difensore d’ufficio.

 

Il 3 gennaio 1938 il Presidente del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato nominò difensore d’ufficio di Lucchini Vittorio e di altri due imputati l’Avvocato Francesco Arcamone, Piazza del Fante 8, Roma.


                 Nomina del difensore d’ufficio Avv. Arcamone


Gli unici due testimoni furono citati dall’accusa: erano il Questore di Genova Comm. Rodolfo Buzzi ed il Dott. Wenzel Renato, Commissario di P.S.


Conferma della presenza dei due testimoni

Il processo


Il processo al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato contro il mio prozio e gli altri imputati iniziò il 17 gennaio 1938.


La copertina del fascicolo del processo

La corte giudicante era composta da:

 

Presidente: Bevilacqua Gr. Uff. Cesare Federico, Console Generale della M.V.S.N.

Giudice Relatore: Lanari Comm. Piero, Avvocato Militare

Giudici: Calia Comm. Michele, Mingoni Gr. Uff. Mario, Suppiej Comm. Giorgio,  Pasqualucci Comm. Renato, Rossi Comm. Umberto, tutti Consoli della M.V.S.N.

 

Il dibattimento fu molto veloce e si concluse con la sentenza l’indomani, 18 gennaio 1938. 


Frontespizio della sentenza - 18.1.1938

Tutti i 22 imputati furono giudicati colpevoli e condannati a pene variabili da 1 a 18 anni, alla libertà vigilata ed al pagamento in solido delle spese di giudizio e delle spese di preventiva custodia.

 

Ecco il dettaglio delle pene comminate al mio prozio ed ai suoi più diretti “complici”:

  • Badino Pierino, residente a Pegli (GE), piccolo proprietario: 12 anni di reclusione;
  • Montecucco Mario, residente a San Pier d’Arena (GE), panettiere: 4 anni di reclusione;
  • Berretti Ruggero, residente a Sestri Ponente (GE), calderaio: 5 anni di reclusione;
  • Lucchini Vittorio, residente a San Pier d’Arena, manovale: 3 anni di reclusione, per i reati di cui all’Art. 270 Cap. 2° del Codice Penale (Partecipazione ad associazione sovversiva) e all’Art. 272 P.P. del Codice Penale (Propaganda sovversiva).

Ai condannati venne applicato il condono di un anno di reclusione, sostituito dalla libertà vigilata. La pena residua da scontare per Lucchini Vittorio era quindi di anni 2, conteggiati dal giorno dell’arresto.


La detenzione

 

Dopo la sentenza, che ricordo era inappellabile, il condannato Lucchini Vittorio fu trasferito dal Carcere di Regina Coeli allo stabilimento penale di Civitavecchia per scontare la pena. Il penitenziario di Civitavecchia è stato uno dei più importanti nella storia del sistema carcerario nazionale, celebre per aver ospitato negli anni della seconda metà del ventennio fascista, dal 1932 al 1943, la grande maggioranza dei detenuti politici condannati dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.


Il Carcere di Civitavecchia

Il 19 gennaio 1938 la Direzione delle Carceri Giudiziarie di Roma informò il Ministero dell’Interno che il detenuto Lucchini Vittorio aveva dichiarato di voler intrattenere relazioni epistolari con tre persone:

 

·       la madre, Rossi Giovanna, residente a Vico Marino di Ziano (PC)

·       la sorella Gina (Luigia), residente a San Pier d’Arena, in via Balbi Piovera 12/21

·       il fratello Gino (Luigi), residente a Pianello Val Tidone in via della Chiesa

 

e chiese al Ministero di far eseguire le necessarie indagini sia per accertare il grado di parentela che per autorizzare la corrispondenza.

 

Il 25 gennaio 1938 il Ministero dell’Interno si rivolse ai Prefetti di Piacenza e di Genova chiedendo “di disporre, con cortese sollecitudine, gli opportuni accertamenti circa i rapporti di parentela o di interessi con il detenuto, riferendo anche sulla condotta politica delle persone indicate e se nulla osti a che tra queste e il condannato stesso abbia luogo lo scambio di corrispondenza”.

 

Nel frattempo, il 3 febbraio 1938 la Prefettura di Genova comunicò al CPC e alla Prefettura di Piacenza l’avvenuta condanna del “comunista” Lucchini Vittorio a 3 anni di reclusione, di cui 1 condonato e tramutato in libertà vigilata. Fine pena detentiva: 25 febbraio 1939.

 

Il 13 febbraio 1938 la Prefettura di Piacenza rispose al Ministero dell’Interno comunicando che Rossi Giovanna, madre, e Lucchini Luigi, fratello, “…sono di buona condotta morale e politica, senza precedenti e pendenze penali, e che nessuna di esse ha rapporti di carattere economico con il condannato politico Lucchini Vittorio. Nulla osta a che tra loro e il condannato abbia luogo lo scambio di corrispondenza”.

 

Il 15 febbraio 1938 la Prefettura di Genova rispose al Ministero dell’Interno comunicando che “…Lucchini Luisa fu Alberto e Rossi Giovanna, sorella del condannato politico Lucchini Vittorio, risulta di regolare condotta morale e politica senza precedenti né pendenze penali in questi atti. È coniugata con Bartolini Manlio fu Sesto, nato a Bucarest il 6/11/1898, macchinista navale, iscritto al Partito Nazionale Fascista. Nulla osta che tra la Lucchini Luisa vulgo Gina ed il fratello Vittorio abbia luogo lo scambio di corrispondenza”.

 

Il 26 febbraio 1938 il Ministero dell’Interno rispose quindi alla Direzione delle Carceri Giudiziarie di Roma comunicando che nulla ostava a che avesse luogo lo scambio di corrispondenza tra il detenuto politico Lucchini Vittorio e le persone indicate.

 

Sulle condizioni di detenzione di Lucchini Vittorio a Civitavecchia ci dà qualche informazione un brano scritto da Lucio Lombardo Radice, docente universitario, antifascista, dirigente del PCI, che fu anch’egli detenuto nel medesimo carcere:

 

“Avevo sempre vissuto in ambienti colti, di intellettuali… Nel carcere di Civitavecchia “scoprii”, per così dire, operai e contadini, anzi gli operai e i contadini di avanguardia, i più generosi, i più impegnati nei problemi generali, nel riscatto dei lavoratori e della nazione. Fu una scoperta entusiasmante. I due anni che passai a Civitavecchia… furono di intenso lavoro e studio: una seconda università, tutto sommato più importante della prima nella mia formazione come uomo.

 

Ci dividevamo tutto da veri compagni, in parti uguali: avevamo una quota ogni giorno di 80 centesimi, o una lira al più, con la quale si riusciva a comprare allo spaccio si e no un mezzo etto di formaggio, tabacco e cartine. Io avevo una fame terribile, ma non riuscivo a smettere di fumare. La giornata era regolata dal “collettivo” in modo molto rigoroso. Eravamo una scuola, con un orario di studio e di lezioni con alcune materie principali: storia d’Italia, economia politica, teoria e pratica del socialismo. Ero uno degli insegnanti di storia d’Italia, ma ero allievo nelle altre materie: i miei professori erano compagni operai, o anche contadini.  Studiare insieme era proibito. La parola d’ordine dei carcerieri fascisti era: “ignoranti sono entrati, più ignoranti devono uscire”.  Me lo grido il capo guardia, un bruto, quando mi schiaffo per tre giorni in cella di isolamento, a pane e acqua, perché mi aveva sorpreso mentre insegnavo matematica a un bracciante ferrarese.  Tutti i libri che più ci interessavano erano stati proibiti: ma qualche compagno muratore o artigiano era riuscito a salvarne qualcuno (che so, “Il Manifesto dei Comunisti” di Marx-Engels), costruendo nascondigli nei muri, doppi fondi nei porta immondizie, o rilegandoli con copertine innocenti. Tutto sommato abbiamo vinto noi, anche se loro erano i forti, noi i deboli: siamo usciti dal carcere molto più colti, più maturi, più capaci di cambiare la faccia del mondo.”[2]

 

Sul muro esterno del carcere di Civitavecchia è stata collocata una lapide con questo testo di Umberto Terracini:

 

QUESTO MARMO SENZA NOMI
A RICORDO SOLIDALE DEL COMUNE SACRIFICIO
DIETRO LE MURE SERRATE, DENTRO LE CELLE CUSTODITE
PONGONO E CONSACRANO
I CENTO E CENTO E CENTO PRIGIONIERI POLITICI
CHE AL FASCISMO OPPONENDOSI
RISCATTARONO L’UMILIATA DIGNITÀ NAZIONALE
DI FISICHE SOFFERENZE E DI IDEALI CERTEZZE
NUTRENDO LA LORO LUNGA ATTESA
NELLO STUDIO CONTESTATO QUI ATTINSERO NUOVE FORZE
PER MEGLIO SERVIRE NELLE ULTERIORI LOTTE
LA LIBERTÀ E LA DEMOCRAZIA

NOVEMBRE 1926 - LUGLIO 1943

 

La scarcerazione

 

All'inizio del 1939, giunse in carcere al mio prozio la notizia della morte della madre, Giovannina Rossi, avvenuta a Ziano Piacentino (PC) il 16 gennaio. Dai fascicoli ritrovati non risulta che gli sia sta concesso un permesso per recarsi al funerale. Il 25 febbraio 1939 Lucchini Vittorio, a due anni dall’arresto avvenuto a Genova il 25 febbraio 1937, venne scarcerato dallo Stabilimento Penale di Civitavecchia per espiata pena. Rientrò a San Pier d’Arena; era previsto che dal 26 febbraio 1939 venisse sottoposto a libertà vigilata per la durata di un anno. Ma la sua permanenza a Genova durò poco: il 4 aprile 1939 venne richiamato alle armi e destinato alla Prima Compagnia di Sanità a Torino.

 

Al momento di questo richiamo alle armi Lucchini Vittorio aveva già compiuto 32 anni; egli aveva già prestato regolare servizio militare di leva nel 1926/7 a Firenze; questo nuovo richiamo alle armi “per istruzione” era quindi solo un chiaro pretesto per allontanarlo da Genova e continuare a tenerlo sotto stretto controllo.

 

Ce lo conferma una lettera datata 8 aprile 1939 con la quale la Prefettura di Genova informò prontamente la Prefettura di Torino del richiamo alle armi del “sovversivo Lucchini Vittorio”, pregandola “…di segnalare il Lucchini alla competente autorità militare per le disposizioni di vigilanza”. Il 27 aprile 1939 la Prefettura di Torino rispose, assicurando di aver tempestivamente “…segnalato il noto Lucchini Vittorio per la vigilanza”.


Vigilanza disposta dalla Prefettura di Torino – 27.4.1939

Nulla sappiamo sullo svolgimento di questo supplemento di servizio militare di Lucchini Vittorio a Torino; la Prima Compagnia di Sanità aveva sede presso l’Ospedale Militare; possiamo immaginare che egli fu destinato a compiti di manutenzione o di servizio.


L’Ospedale militare di Torino

Dopo soli 4 mesi, il 23 agosto 1939 fu comunque posto in congedo e poté tornare a Genova, in libertà vigilata; probabilmente riprese a lavorare alle Acciaierie di Campi. Una ricerca condotta presso l’Archivio Storico della Fondazione Ansaldo non ha purtroppo consentito di raccogliere ulteriori informazioni a questo proposito.

 

Sei mesi dopo, il 26 febbraio 1940, allo scadere dei dodici mesi, il Giudice di Sorveglianza di Genova revocò la libertà vigilata già disposta “…nei confronti dell’individuo in oggetto, ex condannato politico, ex libero vigilato politico, comunista”.

 

“Il Lucchini – scrive il 2 marzo 1940 il Prefetto di Genova al Ministero dell’Interno – in questi ultimi tempi ha serbato regolare condotta, senza offrire motivo a rilievi in linea politica”.

 

La Prefettura di Genova decise di mantenere comunque sotto controllo le sue attività. Nei mesi e anni successivi vengono redatti e inviati regolari rapporti al Ministero dell’Interno, datati 22 agosto 1940, 13 marzo 1941 e 17 giugno 1942. In ognuno di essi, si comunica ogni volta che “…l’individuo in oggetto risiede tutt’ora in questa città, serbando regolare condotta, senza dar luogo a rilievi in linea politica. Nei confronti dello stesso continua la occorrente riservata vigilanza”.  

 

I documenti su Lucchini Vittorio, conservati nel fascicolo n. 128015 del Casellario Politico Centrale, terminano qui.

 

Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato venne soppresso nel 1943 dal governo Badoglio. Nello stesso anno nella Repubblica Sociale Italiana venne ricostituito un tribunale omonimo con decreto legislativo del Duce, che rimase operativo fino alla Liberazione.


Il dopoguerra

 

Il CPC continuò invece a rimanere in funzione, anche dopo la nascita della Repubblica Italiana e fino al 1968, come strumento di monitoraggio costante dei soggetti considerati "eversivi". I fascicoli venivano aggiornati ogni quattro mesi, proprio con il fine di mantenere costante l'osservazione delle persone considerate pericolose.

 

Nel fascicolo n.128015 intestato a Lucchini Vittorio la mano di un solerte archivista ha segnato la data di un ultimo aggiornamento, il 1° luglio 1958, del quale non c’è però traccia all’interno del fascicolo stesso.

 

Tutti i fascicoli del CPC sono stati versati nel 2010 dal Ministero dell'Interno all'Archivio Centrale dello Stato e sono consultabili.


Vittorio con la sorella Luigia nel 1957

Negli anni sessanta e settanta, quando da bambino e poi da adolescente andavo a Genova dai nonni, incontravo il prozio Vittorio nel centro di San Pier d’Arena, tra via Buranello e Piazza Vittorio Veneto, dove frequentava il Bar Roma e il Bar Beccaria.

Forse perché ero troppo piccolo, o forse perché non si desiderava altro che dimenticare quegli anni bui, né lui, né i nonni o i miei genitori mi parlarono mai della sua vicenda giudiziaria.

Non essendosi mai sposato, viveva da solo, ma non ricordo di essere mai andato a casa sua. Era rimasto profondamente fedele alle sue idee comuniste; quando negli anni settanta il Partito Comunista organizzò un viaggio in U.R.S.S. per i tesserati, si iscrisse immediatamente e partì. Mi mandò anche una cartolina da Mosca.

Lucchini Vittorio è morto a Genova il 30 giugno 1981.

Ricostruire oggi la sua vicenda giudiziaria mi ha consentito di ricordare lui e tutti coloro che, come lui, lottarono e soffrirono per costruire un’Italia migliore.

Qui
vivono per sempre
gli occhi che furono chiusi alla luce
perché tutti
li avessero aperti
per sempre
alla luce
(Giuseppe Ungaretti, Per i morti della Resistenza)


Ringrazio i funzionari dell'Archivio Centrale dello Stato in Roma per l'aiuto in questa ricerca.


[1] Fondazione Ansaldo Genova, Archivio Ilva, 1882 - 1994

[2] Lucio Lombardo Radice, Da Regina Coeli a Civitavecchia - Lettere dal carcere (1939-1941), a cura di Claudio Natoli, Viella editrice 2021


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