Il Borgo di San Vincenzo in Prato, storia e curiosità

Mi sono spesso domandato perché a Milano, in Porta Genova, le due vie San Vincenzo e San Calocero, parallele tra loro, taglino in diagonale da sud ovest a nord est il quartiere, che è invece percorso per lopiù da strade

che si incrociano tra loro perpendicolarmente a formare un reticolo ortogonale. Inoltre mi sono anche chiesto perché la Chiesa dedicata a San Vincenzo si trovi in via San Calocero, che è parallela alla via San Vincenzo. Da questi due interrogativi è scaturito il desiderio di compiere una breve ricerca storica su questa antica contrada della nostra Milano.

Il canale Vetra

Per rispondere alla prima domanda, e cioè il perché le due vie San Vincenzo e San Calogero taglino il quartiere in diagonale, bisogna risalire al tempo dei Romani, quando a Milano vennero realizzate numerose opere idrauliche: nella zona nord, ad esempio, venne modificato il corso del Seveso con due derivazioni, per portare l’acqua fino al centro della città, servendo così anche le Terme Erculee ed i battisteri della cattedrale.

Idrografia di Milano  (da Wikipedia)


Le opere idrauliche più impegnative riguardarono però la zona meridionale della città, dove i corsi d’acqua sopra ricordati più altri, tra cui il Nirone, confluivano in un unico canale che sfociava nel Lambro a Melegnano. Questo canale era la Vettabbia, il cui nome, secondo Landolfo Seniore, storico vissuto nel secolo XI, deriverebbe dalla parola latina vectabilis (“trasportabile, capace di trasportare”) perché al tempo dei Romani era navigabile e “unito al Po per mezzo del fiume Lambro, offriva alla nostra città tutte le ricchezze d’oltre mare.” 

La Vettabbia riceveva anche le acque del fiume Olona che, all'altezza dell’attuale piazza Tripoli, fu deviato verso est fino ad entrare in città mediante un canale chiamato Vetra. Il canale Vetra arrivava nella città romana seguendo il percorso delle attuali vie San Vincenzo e Gian Giacomo Mora, per raggiungere la zona di quella che oggi è piazza Vetra. Qui il canale riversava le sue acque nel fossato delle mura romane e si congiungeva alla Vettabbia. 

Occorre sapere che le cinte murarie erette a protezione della città di Milano furono tre: la prima risalente all'epoca romana, sotto il principato di Ottaviano Augusto, la seconda medievale e l’ultima risalente all'epoca della dominazione spagnola. Dal XII secolo, in epoca medievale, con lo sviluppo della città, il canale Vetra venne accorciato per portare acqua nel fossato difensivo dei bastioni medievali, che correvano lungo la via De Amicis. Il tratto di canale in via Gian Giacomo Mora venne quindi interrato. Il fossato medievale diventerà poi la Cerchia dei Navigli. 

Mappa Idrografica di Milano (da Wikipedia)

Nel 1603, in epoca spagnola, il canale Vetra fu deviato nella Darsena di Porta Ticinese ed anche il tratto di canale tra l'Olona e la Cerchia dei Navigli venne interrato. Le due attuali vie San Vincenzo e San Calogero erano quindi sino al 1603 le due alzaie che correvano sui due lati del canale Vetra. Questo spiega il loro andamento parallelo e diagonale attraverso il quartiere.

Il Borgo di San Vincenzo e la Pusterla dei Fabbri 

E veniamo ora a parlare del Borgo di San Vincenzo, la contrada che si sviluppò in epoca medioevale sulle due sponde del Canale della Vetra.

Borgo San Vincenzo (da Blog Urbanfile)

Nel 1338 Azzone Visconti costruì la seconda cinta di mura della città e le relative porte di ingresso, dette pusterle, per permettere il passaggio di persone e di merci in entrata ed uscita, con applicazione del dazio. Il Borgo di San Vincenzo sorgeva fuori da una di queste porte, la Pusterla dei Fabbri, situata nello spazio ora occupato da Piazza Resistenza Partigiana. La Pusterla dei Fabbri era posta al termine della contrada di San Simone, così chiamata dal nome dell'omonimo oratorio, ora Teatro dell'Arsenale; oggi è la via Cesare Correnti. La Pusterla dei Fabbri nel corso della sua storia ha assunto diverse denominazioni, a partire da quella di Fabia, ereditata da una precedente pusterla di epoca romana. Questa pusterla, dedicata a Quinto Fabio Massimo detto il cunctator, era da molti considerata già al tempo un'intitolazione ai sacerdoti Fabi, depositari del culto di Giove, che avevano il proprio tempio nell'area successivamente occupata dalla Chiesa di San Vincenzo in Prato. Altri, rifacendosi a un documento cartaceo del tempo, riconducono il nome al fatto che la pusterla si sarebbe trovata “ad cassinam quae dicuntur de fabis", cioè in una zona di produzione di fave.

Ricostruzione della posizione della pusterla dei Fabbri (da Blog Urbanfile)


Un'iscrizione scoperta nella Chiesa di San Vincenzo in Prato cita invece un vicus fabrorum, borgo dei Fabbri, facendo riferimento quindi ad un tessuto sociale ben consolidato nel corso dei secoli in questa zona, che si era via via popolata delle botteghe di molti fabbri ferrai, confinati lontano dall'abitato, ai margini della città, che per la loro particolare attività, rumorosa e senza orari, necessitavano dell'acqua dei Navigli e del canale Vetra.

Due vedute della Pusterla dei Fabbri (da Wikipedia)


L'edificio della Pusterla dei Fabbri si sviluppava su una sola arcata, che aveva dimensioni differenti rispetto a quella d'uscita, di modo da apparire come un imbuto, lungo peraltro più di dieci metri.

Nel 1877, nominate due apposite commissioni e analizzati diversi rapporti e pareri, il Comune di Milano avanzò la proposta di un'eventuale demolizione della Pusterla dei Fabbri. La sostanziale parità tuttavia fra i pareri negativi e favorevoli alla demolizione, portò a una sostanziale immobilità della questione, che si protrasse per decenni. Nel 1884 la Società Storica Lombarda spingeva energicamente per la conservazione della vecchia pusterla, ma a nulla valsero queste prese di posizione, anche autorevoli. Il 6 marzo 1900 la discussione giunse a una svolta negativa e la pusterla nei mesi subito successivi venne pertanto demolita.

Il salvabile venne preservato e donato ai Musei del Castello Sforzesco, all'interno del quale è stato ricostruito l'arco che dava sulla campagna, che costituisce oggi virtualmente l'accesso stesso ai musei.

L'arco della Pusterla dei Fabbri
rimontato nel Museo del Castello Sforzesco (da Wikipedia)


Il Borgo di San Vincenzo era caratterizzato da una serie di edifici: la Chiesa di San Calocero, il Palazzo Pallavicini e la Basilica di San Vincenzo in Prato, con l’annesso Ospedale.

La Chiesa di San Calocero

La via San Calogero prende il nome da un’antica chiesa dedicata a questo Santo, oggi non più esistente, che si trovava all'altezza dell’attuale civico 3, in prossimità dell’incrocio con via Sapeto. 

Inserimento della Chiesa di San Calocero nel contesto attuale (da Blog Urbanfile)


Calocero era un romano di stanza a Milano, ministro del palazzo imperiale e comandante della corte pretoria, che si convertì al cristianesimo e per questo fu martirizzato ad Albenga nel 121 D.C. Le origini della chiesa, forse un oratorio di piccole dimensioni, risalivano all'epoca pre-romanica, visti alcuni rinvenimenti effettuati in zona, ma si hanno notizie certe soltanto dal 1519, allorché si riporta che l’11 luglio di quell'anno, durante alcuni scontri tra le truppe francesi e quelle sforzesche, un’immagine della Madonna del pianto, che si trovava sul fianco dell’oratorio, prese a lacrimare sangue per tre giorni e tre notti. Il popolo era accorso e ciascuno le asciugava con panni di lino da tenere con sé. L’Arcivescovo di allora, però, mise fine a questo pellegrinaggio e fece raccogliere le lacrime in un’unica ampolla d’argento. Madornale errore: il nuovo padrone di Milano, Francesco I Re di Francia, prese il reliquiario e lo fece portare a Parigi. Alla chiesa era annesso un convento di monache, eretto dai monaci di San Vincenzo in Prato. In quell'epoca di guerre, essendo la chiesa situata fuori dalle mura, le monache dovevano spesso abbandonare il convento e riparare in altri conventi all'interno della città.

Proprio grazie al miracolo del pianto, nel 1565 il convento fu restaurato ed ampliato per ordine di San Carlo Borromeo e l’effigie miracolosa fu posta sopra l’altare maggiore. Nel 1615 fu deciso un restauro, seguito da un altro nel 1718 che però lasciò incompiuta la facciata. Durante il dominio austriaco la chiesa diventò sussidiaria della basilica di Sant'Ambrogio. Verso il 1852 fu trasferita qui da Saronno la sede del seminario per le missioni estere, il futuro PIME, poi trasferito nella zona di piazzale Brescia. 

San Calocero dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale (da Blog Urbanfile)


Gravemente danneggiata dai bombardamenti anglo-americani del 1943, la Chiesa di San Calogero rimase in stato di abbandono fino al 1951 quando, visto il suo scarso valore artistico e l'avanzato stato di abbandono, ne venne deciso l'abbattimento. 

L’affresco del miracolo fu conservato e trasferito in San Vincenzo in Prato, ove tutt'ora si trova e si può ammirare. Il primo personaggio da destra nell'affresco è Calocero.

L'affresco del miracolo


Il Palazzo Pallavicini

Il palazzo Pallavicini si trovava in Strada San Calocero, di fronte all’omonima chiesa. Li vediamo entrambi in questa incisione di Marcantonio Dal Re del 1745 e in una mappa del 1856. 

Palazzo Pallavicini in Strada San Calocero e in una mappa del 1856
(da storiadeisordi.it e wikipedia)

Il palazzo fu eretto all’inizio del XVIII secolo dalla nobile famiglia dei Pallavicini, originari di Genova. Il Marchese Gian Luca Pallavicini venne nominato nel 1742 dal governo austriaco ministro delegato per la Lombardia e successivamente governatore. Nel 1753 si trasferì a Vienna. Il 5 settembre del 1805 il medico lionese Antonio Eyraud fondò a Milano una scuola privata per sordomuti, che nel 1821 si trasferì nell'ex palazzo Pallavicini, in Strada San Calocero, appositamente acquistato dal governo austriaco. La scuola divenne l’Imperial Regio Istituto per Sordomuti, trasferitosi poi nel 1888 in via Galvani. Il palazzo venne successivamente ceduto al Comune di Milano; danneggiato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, fu demolito negli anni ‘50 e sostituito dagli attuali condomini.

La Basilica di San Vincenzo in Prato

La basilica di San Vincenzo in Prato, situata in via San Calocero, è una delle basiliche paleocristiane di Milano ed è una delle chiese più antiche della città. Il livello del pavimento dello slargo si cui si affaccia la chiesa, che è molto più basso della via San Calocero, è quello dell’antica Mediolanum.

San Vincenzo in Prato (da Blog Urbanfile)

La chiesa fu costruita sul luogo di un tempio romano eretto sulla via per Habiate (Abbiategrasso), Vigevano e Asti, forse dedicato a Giove, o di un oratorio che si trovava al centro di una necropoli romana, di cui alcuni reperti sono murati sul fianco sinistro esterno della chiesa. 

La prima chiesa fu fondata dal re longobardo Desiderio, nell'anno 770, che la dedicò alla Vergine. Poi mutò dedicazione in San Vincenzo, perché furono trovate le spoglie del martire, oggi conservate in un’urna nella Cripta. Vincenzo era un diacono aragonese martirizzato sotto Diocleziano (303-304), il cui culto era particolarmente vivo a Milano nella tarda antichità. Nell'806 fu aggiunto alla Basilica un monastero benedettino; tra il IX e XI secolo i monaci ricostruirono la chiesa ormai cadente. Il monastero visse in quei secoli periodi di vero splendore. 

L'antico complesso benedettino comprendeva, oltre alla chiesa, un antico cimitero cristiano ed un Ospedale, che si trovava di fronte alla chiesa, tra le attuali vie San Calocero e San Vincenzo. Nel 1520 il monastero fu però soppresso e la Basilica fu adibita a parrocchia.

L'abside di San Vincenzo in Prato (da hotelwinndsormilan.com)


Nel 1797, in seguito alle leggi napoleoniche, come per molti altri templi italiani, la Basilica fu sconsacrata ed adibita a magazzino militare, stalla e caserma. Nel 1808, con l’arrivo degli Austriaci, fu venduta ad un imprenditore che vi installò una fabbrica di prodotti chimici, danneggiando gravemente la struttura e distruggendo gli affreschi quattrocenteschi che ne decoravano l'interno. Il campanile fu trasformato in ciminiera. L’antica basilica per tutto l’Ottocento venne battezzata la Casa del Mago, per via dei fumi e vapori che uscivano dalle finestre, dal campanile e da ogni pertugio. L’interno era illuminato dalle caldaie su cui si trovavano storte e alambicchi.

L'interno della Chiesa adibita a fabbrica (da Blog Urbanfile)


Nel 1880-90, su sollecitazione delle Commissioni cittadine facenti capo all'Accademia di Belle Arti di Brera, l'architetto Landriani, responsabile dei restauri alla vicina Basilica di sant'Ambrogio, la restaurò conferendole l'aspetto attuale e la ripristinò al culto. Nella seconda metà del secolo XX altri interventi di restauro hanno eliminato alcuni rifacimenti ottocenteschi e hanno collocato come pala d'altare la quattrocentesca "Madonna del pianto" proveniente dalla chiesa di San Calocero.

Nella navatella di destra è collocato un altro frammento di affresco, la Madonna dell'aiuto, anch'esso proveniente da S. Calocero. La cripta è, assieme alla cripta di San Giovanni in Conca, l'unica cripta romanica originale rimasta a Milano. Il battistero ottagonale che si trova all'esterno della Basilica è invece opera moderna dell'architetto Paolo Mezzanotte ed è stato aggiunto nel 1932. 

L’Ospedale di San Vincenzo 

L’Ospedale si trovava in un edificio di fronte alla chiesa di San Vincenzo in Prato, nell'area ove ora sorge la sede della Croce Verde Assistenza Pubblica Milanese.

Mappa con la posizione dell'Ospedale (da blog Urbanfile)

Fondato intorno all'anno Mille, l'Ospedale ospitava i malati mentali e tutti coloro che erano giudicati malati incurabili: ciechi, paraplegici, epilettici, pellagrosi, sordi, muti, spastici. Per questo era detto l’Ospedale dei Pazzi. Per aggravare il carico erano ospitati anche i cosiddetti figli dell'ospedale, cioè i bambini abbandonati dalle loro madri presso le Ruote degli Esposti. 

L'Ospedale di San Vincenzo era realmente una bolgia dantesca, un vero inferno. I monaci dal confinante chiostro mandavano i loro avanzi di cibo come unico nutrimenti dei malati, non esistevano medicine e cure, se non la preghiera e la grazia di Dio. Quando un pazzo o un malato iniziava a diventare molesto o ad avere quello che allora si chiamava "ballo di San Vito", attacchi dovuti alla còrea di Sydenham o all'epilessia, il rimedio era sempre lo stesso, per secoli: il malato veniva preso di forza e buttato in una vasca piena di acqua gelida pescata dalla vicina Fonte di San Calocero, ritenuta miracolosa. I malati erano divisi in due categorie, quelli a pagamento, che ricevevano una assistenza quasi umana, e tutti gli altri, che erano trattati alla stregua di bestie. Ancora tra il Cinquecento e il Seicento il personale dell'Ospedale, addetto ad oltre 300 internati, non era composto che da una dozzina di persone, tra cui spiccava il barbiere, addetto non solo alle pratiche di chirurgia, cioè tagliare capelli, unghie e strappare i denti, ma anche alle pratiche mediche, che consistevano in salassi, purghe e continui clisteri per far uscire il demonio dai malati posseduti. Solo nel 1688 tra il personale compare anche un medico, sette secoli dopo la fondazione dell'Ospedale. Incisori e ritrattisti dipinsero più volte gli ospiti dell'Ospedale dei pazzi, ritraendoli attraverso le ringhiere e i muri. Corpi attorcigliati, sovraffollamento e malattie infettive.

L’ospedale di San Vincenzo in Prato nel 1777 ospitava 305 pazienti e 79 persone di assistenza e di servizio. Emerse un problema di spazi, legato non tanto ai pazzi bensì al numero di figli dell'ospedale. Con decreto del 5 settembre 1780 l’Imperatrice Maria Teresa d'Austria ordinò quindi che venissero create due nuove sedi: una per i trovatelli, la Pia Casa degli Esposti e delle Partorienti in Santa Caterina alla Ruota di Milano, ove ora sorge il Policlinico, e una per i pazzi (e per i primi anni anche i disabili fisici), la Pia Casa della Senavra. Fu uno degli ultimi atti dell'Imperatrice, che pochi giorni dopo morì. 

Il trasferimento al palazzo della Senavra, situato fuori Porta Tosa (oggi Porta Vittoria) – già residenza di Ferrante Gonzaga dopo la sua nomina a governatore di Milano nel 1546 –, avvenne di notte, su carri, nel settembre 1781. Ben presto nel gergo popolare milanese “fenì a la Senavra” divenne sinonimo di “diventare matto”.

La Senavra in Corso XXII Marzo (da aczivido.net)


Il 15 dicembre 1784 - in seguito all'editto dell’imperatore Giuseppe II del 6 ottobre - venne aperta presso l’edificio dell’ex Ospedale dei Pazzi di San Vincenzo in Prato la Casa di Lavoro Volontario: l’istituto era finalizzato a fornire lavoro a poveri disoccupati, appartenenti alla città per nascita o domicilio decennale, che non fossero in grado, anche per disabilità fisica o mentale, di accedere al normale mercato del lavoro. 

(dal Catalogo mostra "Milano scuola di Carità", 2007)

Nel progetto di  riforma del sistema assistenziale voluto da Giuseppe II, le Case di Lavoro dovevano essere la prima risposta all'indigenza, destinate a contenere la necessità di ricorso alle elemosine. Al principio del successivo mese di maggio la Pia casa poté così accogliere i primi 82 ricoverati, 47 dei quali erano questuanti prelevati nelle vie di Milano, 25 provenivano dall'Ospedale Maggiore, mentre i 10 restanti erano stati scelti tra i bisognosi segnalati dalle parrocchie. La materia prima necessaria all'attività lavorativa - filati, tessuti, pellami - veniva fornita dalla Casa. Agli uomini si insegnava a fare scarpe e stuoie con la stoppa, le donne confezionavano calze, abiti, biancheria di lino, cotone e canapa. Alle madri di famiglia, che non potevano abbandonare la casa, fu concesso di lavorare a domicilio. La produzione fu comunque sempre limitata, dal punto di vista qualitativo e quantitativo, anche per non creare concorrenza con l’industria locale; parte dei manufatti era destinata ad altre strutture assistenziali cittadine. Per l’incapacità di alcuni di svolgere lavori anche semplici in modo produttivo, fu stabilito un minimo compenso giornaliero individuale per gli inabili e una paga proporzionata al lavoro svolto per tutti gli altri. Nel 1808, con decreto del viceré Eugenio di Beauharnais, si inasprì la repressione dell’accattonaggio e alla Casa vennero condotti forzatamente coloro che contravvenivano al divieto di mendicare.

(dal Catalogo mostra "Milano scuola di Carità", 2007)

In San Vincenzo erano ricoverati circa 400 tra donne, vecchi e fanciulli derelitti e l’affollamento nell'edificio rese ben presto necessaria l’apertura di una nuova sede, nei locali del soppresso convento degli agostiniani di San Marco (1815): in entrambe le Case furono accolti per la notte anche i poveri, intervenienti al lavoro e senza fissa dimora e perciò esse presero il nome di Pie Case d’Industria e di Ricovero. Furono ospitati anche per molti anni i minorenni abbandonati - i “derelitti” - fino all’apertura di un Istituto a loro dedicato. Visitati, rifocillati, vestiti con una divisa, i maschi venivano avviati al lavoro presso artigiani esterni mentre le femmine erano occupate in lavori di cucito e filatura all’interno della Pia Casa. 

Nel 1821 erano ricoverati per la notte a San Vincenzo 147 fra uomini e donne, che venivano forniti di vestiario e che ricevevano per il loro lavoro cent. 40 al giorno gli uomini e cent. 31 le donne. Attorno al 1830, durante i periodi di maggior affollamento nella brutta stagione, tra le due sedi, San Vincenzo e San Marco, si presentavano giornalmente al lavoro oltre 600 persone, mentre 300 donne lavoravano a domicilio. La situazione economica delle Case d’Industria si rivelò però sempre più precaria. La Casa ospitava oltre 70 minori; a causa delle difficoltà economiche, si decise di affidare i ragazzi a famiglie di agricoltori, in cambio di un assegno di mantenimento. Mentre il numero dei lavoratori volontari andava naturalmente calando - rimasero quasi esclusivamente gli oziosi e i totalmente inabili - quello dei ricoverati fu limitato prima a trecento, poi a duecentocinquanta unità.

(dal Catalogo mostra "Milano scuola di Carità", 2007)


Nel 1845 si ridefinirono le competenze tra i Luoghi Pii ed il Comune di Milano in materia di assistenza ai minori e il ricovero in via San Vincenzo fu riattivato. Dall'analisi dei registri d’ammissione risultano presenti mediamente 49 giovani tra gli 8 e i 20 anni. I ricoverati venivano avviati al lavoro presso officine esterne per apprendere un mestiere che, raggiunta la maggiore età, garantisse loro l’autonomia economica. La maggior parte imparava a fare il sarto o il calzolaio. 

Nel 1900 il numero dei frequentatori della Casa d’Industria di Via San Vincenzo era ridotto a soli undici uomini e due donne, tutti abitanti nel vicinato, che ottennero un assegno quotidiano a domicilio, senza obbligo di recarsi alla produzione. Nel 1902 la Casa d’Industria di San Vincenzo fu chiusa definitivamente. In quello stesso anno, grazie al lascito del Benefattore Carlo Giulio Trolliet, il Comune riadattò parte dell’edificio di Via San Vincenzo come sede provvisoria di un Ospedale dei Bambini ed iniziò la costruzione di una sede definitiva in Via Settembrini.

(dal Catalogo mostra "Milano scuola di Carità", 2007)

Nel 1906 l’Ospedale dei Bambini lasciò l’edificio di Via San Vincenzo e si trasferì nella nuova Sede. L’edificio è quello attualmente occupato dall’Istituto Gonzaga. 

L’area di Via San Vincenzo rimase in stato d’abbandono per molti anni. I bombardamenti della seconda guerra mondiale rasero al suolo ciò che rimaneva degli antichi edifici: Chiesa di San Calogero, Palazzo Pallavicini ed Ospedale dei Bambini. Solo la Basilica di San Vincenzo si salvò. 

Nel 1949 parte dell’area tra le vie San Calogero e San Vincenzo fu venduta dal Comune di Milano alla Croce Verde Assistenza Pubblica Milanese, perché vi costruisse la sua nuova Sede. 

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